In EXTRANET una delle figure più importanti e carismatiche della musica italiana degli ultimi vent’anni: Giovanni Lindo Ferretti. Tra passato, presente e futuro, tra musica, cinema e poesia. Imperdibili racconti di vita.
Come ti sei ritrovato all’interno del progetto teatral-musicale “Craj” con Teresa de Sio? (Il termine in dialetto pugliese significa “Domani”, e la storia racconta il viaggio del Principe Floridippo – Giovanni Lindo Ferretti – e del suo servo Bimbascione – Teresa De Sio – attraverso la Puglia. Il regista Davide Marengo ne ha realizzato un film, vincitore del Premio Miccichè al Festival di Venezia 2005. NdT).
Come la maggior parte delle cose, perlomeno nella mia storia, è capitata senza che io la andassi a cercare. Stavo lavorando in teatro con Barberio Corsetti, e Teresa de Sio è arrivata con un’idea meravigliosa. Io non avevo molto tempo, ma quando ho ascoltato il progetto ho deciso che nel poco tempo libero mi sarei dedicato a quello, perché era veramente interessante. Naturalmente la lavorazione è durata molto più del previsto e dalle tre settimane preventivate inizialmente è diventato un anno di spettacoli, e poi un film. Devo dire che la forza motrice di tutto questo progetto è stata Teresa, io sono stato semplicemente “accalappiato” e mi sono trovato a mio agio perché da alcuni anni ormai lavoro all’interno della dimensione della musica tradizionale popolare. Non ho meriti per quel che riguarda la progettazione e la storia…
Un salto indietro: dall’incontro tra te e Massimo Zamboni nel 1982 sono nati i CCCP, progetto in italiano che prendeva ispirazione dalla new wave tedesca e dal punk espressionista e che continua a fare scuola per tanti gruppi come ad esempio Marlene Kuntz, Afterhours…?
Il progetto è nato nella Berlino ancora attraversata dal muro, dove si esprimevano valori non solo musicali molto potenti, e poi si è trasferito a Reggio Emilia, la nostra città, dove però non avevamo mai avuto occasione di incontrarci. Questa esperienza si protrae ormai da più 20 anni, per quanto sotto diverse spoglie… 1997, la Band, che ha ormai stabilmente al suo interno anche Ginevra Di Marco e Francesco Magnelli, parte insieme per l’oriente e torna con un progetto discografico “Tabula Rasa Elettrificata”.
L’album “Codex” ne sarà il proseguimento?
Per quel che mi riguarda sì, anche se in realtà “Tabula Rasa Elettrificata” è stato un progetto collettivo, mentre “Codex” avrebbe dovuto essere un progetto di riflessione giocato tra me e Massimo, che poi si è trasformato, ahinoi, nella nostra separazione… Io comunque, da che ho cominciato, con il primo disco dei CCCP, ad oggi, “campo” di parole, la mia esistenza è tutta giocata sulle parole e quindi le parole di ogni disco mi appartengono, anche quando poi fanno i conti con la collettività del gruppo che le trasforma in canzoni…dal mio punto di vista, appunto quello delle parole, la riflessione è unica ed è molto legata alla mia vita, da “Ortodossia” sino all’ultimo disco che sto facendo con i P.G.F.
Credi ancora “nella salvezza dell’universo sociale e politico, matrilineare”, come declamavi in “Tabula Rasa Elettrificata”?
Il tempo, come credo sia giusto, ha trasformato molte delle mie convinzioni per quello che riguarda la dimensione sociale e la dimensione politica. Non credo nella salvezza sociale e politica, credo nella matrilinearità, perché, ahimè o per fortuna, sapere chi è la propria madre è l’unica cosa sicura che posseggono gli uomini sulla terra.
CCCP e CSI sono stati l’emblema delle controcultura?
Beh, è un po’ un cliché… e come tutti i cliché contiene una parte di verità ed una parte che è una forzatura. I giudizi sull’operare li danno gli altri più che i diretti interessati, io mi sento “partecipe dell’Esperienza dell’Esistere umano”. Nei decenni che si susseguono nella vita si pensano e si fanno cose diverse… la parola “controcultura” mi lascia con l’amaro in bocca, vista l’esperienza dei miei ormai 50 anni.
In passato hai affermato di volerti rifugiare in Mongolia…?
La Mongolia continua a rimanere per me uno dei paradisi sulla Terra, a causa delle sue condizioni storiche e geografiche. Io ho bisogno di grandi spazi e di molti animali perché la mia vita sia serena ed io possa essere felice sulla Terra, e da questo punto di vista la Mongolia è davvero un paradiso terrestre. Mi accontento di essere tornato a casa mia in montagna, sull’Appennino, ma se dovessi pensare ad un luogo assoluto dove mi piacerebbe finire la mia vita, le cose che penso tendono alle steppe, ai luoghi desolati, ad un deserto, di certo non ad una grande città.
Jodorowsky “Vangeli Per Guarire”, “Fiori Rossi del Tibet”, cosa ti fanno venire in mente?
Il libro di Jodorowsky è stato per me una sorpresa incredibile. Io nel tempo avevo accumulato una serie di pregiudizi nei suoi confronti ed al tempo della “Montagna Sacra” non lo seguivo più e non sapevo cosa facesse. Questo libro mi è arrivato in mano regalatomi da Bernocchi, Eraldo, e mi ha lasciato veramente stupito; se penso a quel libro penso anche ad un pezzo della mia guarigione. Se penso a “Fiori Rossi del Tibet”, beh… è una storia complessa: innanzitutto credo sia il primo libro scritto da un tibetano in cinese, il che dimostra, ahimè, che l’indipendenza del Tibet da ogni punto di vista è sempre più un sogno irrealizzabile; io l’ho trovato un libro molto bello, con la capacità di raccontare una storia insieme reale e visionaria e che ti coinvolge nella complessità. Quando i mondi cambiano ci sono sempre ragioni molto forti e c’è sempre un sentimento di tristezza per quello che vai a perdere e che non avrai più.
Cosa ricordi della tua infanzia?
Ricordo moltissimo. Da quando poi è cominciata, negli ultimi anni, questa riflessione sulle tradizioni musicali, culturali e religiose, la cosa cui più faccio riferimento è la mia infanzia. Io sono nato e cresciuto, fino ai sei anni, all’interno di una dimensione che io definisco “tardo-medievale”, fortemente tradizionale e molto, molto lontana dalla modernità. Ricordo mia nonna, che è colei che mi ha allevato ed è il mio principale “maestro di vita” – adesso che sono diventato vecchio la riconosco come tale; ricordo il piacere della scoperta degli animali, del mondo, dei paesaggi, dei rapporti umani. È un pensiero che mi permetto abbastanza spesso, soprattutto da che ho fatto la pace con quel mondo.
Qualcosa che vorresti realizzare?
Ci sono tante cose possibili… Io, come ti ho detto all’inizio, non faccio molto uso dello sforzo di volontà per realizzare le cose, preferisco essere molto attento alle cose che si muovono intorno a me. Sono molto più le persone che le cose a fare la differenza. Non c’è una cosa di per sé che io farei, tralasciando o dando poca importanza alle persone con cui questa cosa viene fatta. Ci sono diverse cose, mi piacerebbe costruirmi una dimensione di “piccola scuola”: in parte lo sto già facendo, in parte sto pensando di “complicare” questa esperienza. Però non è tanto uno sforzo di volontà, quanto piuttosto fare tutto il possibile perché se poi le cose si verificano, abbiano il retroterra che le possano far vivere e le possano vivificare. Ma è un periodo in cui sto bene, sia di salute fisica che psichica, quindi non vivo tanto di sogni, quanto di quotidianità.
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Ascolta intervista audio a Giovanni Lindo Ferretti.
Ricordate quell’intervista
Ricordate quell’intervista del 1984 (riportata in Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli) ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesto il perché del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio. Alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance, il cambio della guardia.” Quindi una questione morale – già allora si ricercava una opzione possibile rispetto alla decadenza dell’Occidente – e di stile, circostanza che ci fa supporre, senza nulla togliere agli altri componenti del gruppo, che a rispondere sia stato lo stesso Ferretti.
Nella tua intervista compare un Ferretti diverso, tuttavia, a rifletterci bene, non troppo. Allora parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, allora assumeva come alternativa la cultura asiatica (si parlava di arrivare in Cina attraversando la Siberia), qui si parla di “steppe” e “luoghi desolati” come luogo “assoluto” dove – per ipotesi – andare a finire la propria esistenza. Nella tua intervista è la Mongolia che viene vista come “uno dei paradisi sulla Terra”, come luogo non precario, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza rassicurante degli animali, quello spazio ideale che Ferretti “reduce” ha infine ritrovato nella propria terra di origine.
Dalla tua intervista viene fuori, se così si può dire, l’invariabile che c’è in Ferretti: quel suo “campare” di parole, riflessioni su se stesso e sui propri cambiamenti, la credenza nella matrilinearità come unica via di salvezza o di redenzione, il suo profondo sentirsi “partecipe dell’Esperienza dell’Essere umano”. La convinzione, inoltre, di aver vissuto la propria infanzia in un’età tardo medioevale alla quale è succeduta quella devastante età moderna, nella quale già si insinua la post modernità.
Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di un’esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, “regredisce” e si fissa nei confini dell’esenziale. E l’affermazione che sarebbero “più le persone che le cose a fare la differenza” sembrerebbe particolarmente significativa. Ne viene fuori il Ferretti di sempre, innamorato della vita, ora rasserenato, riconciliatosi con il proprio mondo e con la propria identità, peraltro mai persa di vista.
Non entro nel merito della prima e della settima domanda dal momento che ignoro sia l’evento culturale al quale viene fatto riferimento nella prima, né – ahimé – conosco i libri di cui si parla nella settima. Anch’io, come te, gli avrei chiesto da quale parte passa la via della salvezza e cosa rappresenta per lui l’esperienza di Codex. Forse gli avrei chiesto anche se con l’espressione “casi difficili” – titolo del noto e ormai memorabile testo che figura in d’anime e d’animali – oltre che fornirci una emblematica definizione dell’uomo contemporaneo intendeva anche dare un nome ai non integrati come tanti di noi. Dandogli la mano dopo che molto gentilmente e pazientemente mi aveva autografato Reduce in più pagine, mi sono da lui congedata dicendogli “siamo casi difficili”, e alludevo a questo secondo significato da me, forse arbitrariamente, aggiunto. Ferretti mi ha risposto con un sorriso di assenso. Ma sarà stato veramente un segno di approvazione?