È al suo primo esordi discografico Davide Tosches, dopo Stressmog! un disco auto prodotto, il suo nuovo lavoro s’intitola: Dove l’erba è alta un disco dai suoni avvolgenti che stabilisce un intenso rapporto con la natura.

Il compositore e scrittore Giancarlo Onorato parlando del lavoro lo definisce come “Una musica di suoni e non di note”.

Al microfono di Patrizio LONGO incontriamo Davide Tosches per raccontare questo percorso musicale.

Mi fa piacere iniziare l’intervista con la domanda: “Dove l’erba è alta“?

A me invece fa piacere ringraziarti per l’intervista come prima cosa. Dove l’erba è alta è un luogo dove non ci sono tracce di civiltà, è un posto dove posso sentirmi a casa ma sono comunque ospite perché non voglio dare alcun disturbo agli animali e alle piante. È sempre più necessario che come uomini civilizzati impariamo a rispettare gli spazi delle altre creature senza credere che il mondo sia esclusivamente nostro. Se perdiamo di vista questo valore rischiamo di distruggere quasi tutto quello che abbiamo di importante e che spesso non consideriamo. La natura è il luogo dal quale veniamo, non è una cosa esterna alle città, al nostro modo di vivere e alle nostre nevrosi. È un dato di fatto, ma è anche un invito a non perdere di vista le cose fondamentali nella quotidianità, per evitare conflitti con noi stessi e con gli altri, uomini, animali o piante che siano.

Un disco dalle sonorità introspettive?

Un disco il più possibile sincero, non ci sono artifici emotivi di alcun tipo, quello che comunico è quello che sono nella vita di tutti i giorni. Impresa non facile visto che bisogna mettersi completamente a nudo, ma spero di esserci riuscito nel migliore dei modi. Le sonorità, in quest’ottica vengono fuori da sè. Io spesso compongo cercando di assorbire i suoni dei luoghi o delle cose. Ad esempio: “qual’è la voce di quest’albero, di questo muro o della nebbia?”, grosso modo i suoni che utilizzo, che mi piacciono e che trovo adatti alla musica che faccio nascono così. La conseguenza di questo modo di sentire le cose mi porta anche a suonare diversi strumenti perché se mi serve un suono che ho, diciamo, “estrapolato” da un oggetto o da una situazione non riesco a comunicarlo ad esempio ad un violinista o ad un batterista. Devo prima renderlo in maniera soddisfacente e registrarlo in modo da poter spiegare a qualcuno come suonarlo, ma la maggior parte delle volte le parti che suono sono già efficaci.

Quali sono stati i punti di riflessione che ti hanno portato a questa linea compositiva?

La necessità di comunicare ciò che vedo e che sento prima di tutto, il mio mondo. È stata una bella fatica negli anni dare concretezza alla mia visione musicale, che come hai avuto modo di ascoltare non è molto canonica, ma neanche assurda o inaccessibile. Dico che è stata una fatica perché ho inseguito questo risultato per molto tempo e non ero mai soddisfatto pienamente a parte alcuni brani dell’album precedente che infatti eseguo dal vivo affiancandoli a quelli nuovi. Inoltre fra le molte cose che ascolto e che mi piacciono mancava qualcosa come il mio disco, con questi suoni e con queste intenzioni e quindi me lo sono fatto da me.

Se dovessimo sintetizzare le numerose collaborazioni, con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Spontanee.

Mi racconti del tuo incontro con Giancarlo Onorato?

Bisogna necessariamente cominciare dagli stivali. Un giorno ero in una sala d’aspetto di un ospedale e mi sono accorto che sotto la mia suola c’era una pagina stracciata di Musica di Repubblica con la recensione di “Falene”. Ho letto la recensione e il giorno dopo sono andato a comprare il disco. Dopo un paio di ascolti ho capito che avevo trovato un artista in Italia che poteva capire e forse amplificare la mia visione perché con le dovute differenze anche lui fa una musica introspettiva e molto personale, genuina direi. In quel periodo mi ero messo in testa di terminare il primo vero album che si intitolava Stressmog! (che distribuirò a breve gratuitamente sul mio sito); Giancarlo è stata la prima persona alla quale ho pensato di spedirlo ed ero sicuro che l’avrebbe apprezzato, così dopo circa un anno abbiamo selezionato i nuovi brani e iniziato la produzione del nuovo disco in piena sintonia e serenità.

«Una musica di suoni e non di note» così evidenzia la tua arte Giancarlo Onorato. Ti va di spiegare questa affermazione?

Ne abbiamo parlato molto spesso con Giancarlo e così alla fine siamo arrivati a questa conclusione sulla quale ci troviamo d’accordo. È per forza musica di suoni perché non posso ingabbiare certe dinamiche sul pentagramma e poi perché tranne in rari casi non ho la minima idea di che note sto suonando sia con la chitarra che con gli altri strumenti. Fa eccezione solo il piano sul quale sono più abile ed è stato il primo strumento che ho iniziato a suonare. Come dicevo prima, se ho bisogno del suono che mi comunica un albero o un alba non posso pensare ad una scala musicale, a delle regole armoniche ma solo al suono. Del resto “suonare” vuol dire emettere dei suoni, almeno per me.

Quali sono stati i compagni di viaggio in questo lavoro?

Prima di tutto Laura Carè, la mia fidanzata che mi ha sempre aiutato con pazienza e ha sempre ascoltato tutto il materiale. Inoltre canta su molti brani del disco ed è veramente una persona con delle qualità musicali e vocali uniche. Il brano “completamente” l’ho scritto per lei. Sicuramente Giancarlo Onorato e Claudio Cattero (il fonico) sono state le presenze più importanti, ma tutti i musicisti che hanno suonato sul disco hanno dato un contributo importante e insostituibile. Franci Omi che ha suonato il piano su Dove l’erba è alta ha eseguito la parte che gli avevo spiegato al secondo tentativo e sono rimasto molto colpito dal suo talento e dalla sua ricettività. Andrea Cavalleri ha arrangiato tutte le parti di basso in maniera impeccabile, per fortuna direi, visto che il basso è uno strumento che non so assolutamente gestire. Alessio Russo ha invece registrato tutte le sue parti di batteria in un solo pomeriggio ascoltando i brani solo al mattino per la prima volta. Una presenza importante anche se non ha suonato nessuno strumento è stata quella di Beppe Crovella (degli arti & mestieri) che è un grande amico e mi ha sempre incoraggiato e inoltre il disco l’abbiamo registrato nel suo studio che è a poca distanza da casa mia.

Un lavoro evocativo che stabilisce uno stretto contatto con la natura?

Si, assolutamente, in questo devo ringraziare anche Rubens, il mio cane che mi accompagna quasi tutte le mattine nei boschi e nei prati vicino al posto dove vivo. Il rapporto con la natura per me è fondamentale ed è la mia primaria fonte di ispirazione, perché come dicevo prima è il posto dal quale tutti noi veniamo. Credo che la natura sia una fonte inesauribile di ispirazione proprio perché è in realtà tutto ciò che abbiamo ed è la cosa che nonostante qualsiasi progresso tecnologico che possiamo aver fatto ci stupisce e ci affascina più di ogni altra. Magari c’è qualcuno che si emoziona comprando un cellulare o guardando un ventilatore o una friggitrice, ma è cosa che non mi riguarda e credo che sia più adeguato parlarne con uno psichiatra.

Quali sono i tuoi ascolti?

Troppi veramente, ma a tuo rischio e pericolo ti rispondo cercando di trattenermi… Principalmente cantautori americani come Bruce Cockburn, Joe Henry, Jim White, Tim Buckley, Andrew Bird e Smog almeno negli ultimi anni e infine Tom Waits, Nick Cave, Willy Deville, Elvis Costello con i quali sono cresciuto, ma sono anche uno dei più grandi ammiratori al mondo di Alice Cooper anche se può sembrare strano ascoltando ciò che faccio. Amo moltissimo anche la musica classica, il jazz (Duke Ellington su tutti) e il blues (soprattutto le incisioni di Robert Johnson delle quali non me ne sono ancora fatto una ragione), la musica folkloristica di artisti come Yma Sumac, Cristina Branco, Huun-Huur-Tu, Altai Hangan.

È importante citare anche Daniel Lanois, soprattutto per i suoni. Fra le cose italiane direi Piero Ciampi e Mimmo Locasciulli su tutti, il primo Capossela, alcune cose di Paolo Conte, Ottavo Padiglione, Rino Gaetano e il maestro Otello Profazio, ultimamente sto riascoltando molto un gruppo fenomenale che si chiama Les Hot Swing. Inoltre fra le cose che ho particolarmente apprezzato ultimamente c’è “undici pezzi facili” dell’amico Paolo Spaccamonti, veramente un grande talento. Dai, ma vogliamo trascurare il metal?

“Rust in Peace” dei Megadeth rimane uno dei miei album preferiti di tutti i tempi, un capolavoro assoluto. Come ti dicevo, troppi veramente, fermami! Mi hai fermato?

No? Allora parliamo anche di Hugo Race e dei Sixteen Horse Power…

Cosa pensi dell’attuale situazione musicale in Italia?

Credo che ci siano molti artisti di assoluto e indiscutibile talento, ma alla fine le riviste e i media danno molto più spazio a proposte che hanno delle influenze e connessioni evidenti con gruppi del passato o con modelli già consolidati. Per quanto riguarda la scena dei cantautori, alla quale sono più vicino in qualche modo, credo che ci siano fin troppi figli illegittimi di De Andrè, De Gregori, Guccini, Battisti, etc.

Bisogna onestamente considerare che quando questi artisti hanno esordito erano comunque abbastanza originali nel panorama italiano, continuare ad imitarli più o meno vistosamente significa togliergli valore e ridicolizzarli anzichè valorizzarli come meriterebbero visto che hanno fatto la nostra storia musicale. Molti giornalisti fanno seri danni alla cultura e alla musica italiana e straniera.

Ti pare possibile che quest’anno ho comprato almeno dieci riviste diverse dove in copertina c’erano ancora i Beatles? Ci vuole coraggio e dedicare qualche copertina ad artisti di valore che hanno qualcosa da dire oggi, nel presente, se si vuole che la gente continui ad ascoltare e produrre buona musica.

Grazie ai Beatles, a Beethoven, a Chuck Berry e a tutti gli altri per averci emozionato e guidato verso territori inesplorati o quasi, ma oggi siamo nel 2009 e dobbiamo valorizzare il presente rispettando il passato perché se oggi uscisse “Sgt. Pepper” ci sarebbe la reale possibilità che passasse inosservato o quasi. La realtà triste è che tutti abbiamo bisogno del cambiamento ma ne siamo terrorizzati.

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