Un’idea nata con il desiderio di farsi strada in uno scenario musicale dai tratti a volte scontati. Un viaggio che legge i cinque sensi attraverso un linguaggio ricco di emozioni.
La loro missione sembra voler diffondere un messaggio «di un’urgenza creativa, attuata secondo i canoni di una generazionalità ambigua e postmoderna» come dichiarano nel proprio spazio web.
Incontriamo i Gato de marmo con Luca Cambò e Alberto Scarpello per raccontare questo avventura.
Le vostre composizioni diffondono un senso di inquietudine. Perché questa scelta?
La scelta di atmosfere cupe, armonie a volte dissonanti, rumorismo e tempi dispari, sostanzialmente, è legata alla volontà di sviluppare una musica originale, seppur figlia delle sonorità degli ultimi 10 anni.
L’inquietudine che ne viene fuori rispecchia probabilmente quella “tensione creativa” che dovrebbe trasparire da ogni opera dell’intelletto.
Dove nasce il nome della vostra band?
Gato De Marmo è il gatto giapponese di ceramica con la zampa alzata che spesso appare in molti film o cartoni animati orientali. Esso è anche un simbolo di pigrizia. Il vero motivo per cui l’abbiamo scelto coinvolgerebbe personaggi e vicissitudini estranee a questo contesto, perciò soprassediamo.
Cosa intendente quando parlate di “realtà musicale locale ormai stantia”?
Con quella espressione ci si riferisce al senso di “insoddisfazione” che capita di provare alla fine di molti concerti nella nostra zona. Le proposte musicali valide e serie sono, a nostro modesto avviso, veramente poche. Durante l’inverno, i locali sono infestati dalla solita manciata di musicisti che ripropongono i successi dei dinosauri del rock. Durante l’estate concerti per turisti, reggae, pizzica e quant’altro.
In mezzo a tutto ciò, i gruppi che meriterebbero combattono per trovarsi da soli uno spazio di una mezz’oretta con un minimo di visibilità.
Potrebbe cambiare questa situazione locale in quale modo?
Ovviamente è una situazione che va ben oltre le possibilità dei singoli gruppi, ed è legata comunque ai gusti musicali individuali degli spettatori . E’ un fenomeno tutto Italiano, del resto, quello di accettare quello che c’è e di farselo piacere. Non esiste la cultura del “rischio”. Un gestore di un locale, che ovviamente è più interessato al rientro monetario della serata che ad un’opera di “educazione” dei clienti, chiamerà preferibilmente la tribute band che garantirà numerosi clienti e consumazioni.
Dall’altra parte, la maggioranza dei clienti è attirata più dalla birra che dal gruppo live, al quale si richiede semplicemente di fare da sottofondo della serata.
E’ difficile che una situazione del genere possa mai cambiare, ma forse è meglio così.
Dove nasce una composizione?
I nostri primi brani fanno parte di un concept sui cinque sensi. Si analizza il ruolo di ognuno di essi nella percezione del dolore o del malessere in varie circostanze.
Il tema di ogni canzone suggerisce delle atmosfere da ricreare. Alle volte si parte da un’idea ritmica, altre da un riff di chitarra, altre da un particolare feedback. Non c’è insomma un percorso ben definito.
Anche il tempo richiesto per la creazione di una canzone è variabile. Molto spesso si ritorna sui propri passi e si modificano parti in precedenza già definite. Ci si ferma quando si ritiene che la canzone sia abbastanza vicina a quella che idealmente ci si era riproposti di ottenere. Il concetto di perfezione e completezza è del resto ormai superato.
Quando avete deciso suonare insieme, Cosa vi accomuna?
In precedenza Alberto (Batteria) suonava in due gruppi, in uno con Vincenzo (Chitarra) e Luca (Chitarra) e nell’altro con Rafelo (Basso). Una volta sciolti, conoscendo le rispettive attitudini musicali, si è intrapresa questa nuova esperienza insieme. Dopo un primo periodo è entrato a far parte del gruppo in veste di cantante Gianluca. Abbiamo più o meno tutti obiettivi ed ideali musicali simili, perciò il cominciare a suonare insieme è stato piuttosto automatico.
La vostra musica ha l’intento di lanciare un messaggio politico?
No. Quello che spesso ci capita di ricercare è una sorta di autoreferenzialità musicale. Musica fine a sè stessa, che parla di sè stessa. Ciò si nota dalle scelte strutturali di alcuni pezzi. A volte si riscopre una certa ricorsività nel susseguirsi delle parti, altre volte delle simmetrie rafforzano il messaggio dei testi.
Del resto Samuel Goldwyn (quello della Metro Goldwyn Mayer) ha detto:
“Se volete mandare messaggi spedite telegrammi, non fate film!”. Credo che questo si possa applicare ad ogni tipo di arte.
Una band salentina, nella terra del sole, che realizza un album dalle tonalità buie. Un disagio che viene raccontato dalla musica?
Il disagio è legato alla situazione descritta in una delle risposte precedenti, non direttamente al posto in cui viviamo.
Non metto in dubbio che comunque il trasparire del pessimismo o dell’inquietudine, oltre che per scelte artistiche, possa essere causato da un fattore inconscio.
Quale motivo vi porta a cantare in inglese?
L’inglese meglio si adatta alle sonorità da noi proposte. I suoni sono più duri e spigolosi di quelli dell’italiano. Non è escluso che comunque futuri esperimenti con la madrelingua possano andare a buon fine.
Quali sono i vostri ascolti?
Per vicinanza alle nostre sonorità sono da citare in primis i Neurosis ed epigoni vari. Ci piace inoltre il sound secco e disturbante degli Shellac. Fra i gruppi italiani non si possono non nominare gli Uzeda, il Teatro degli Orrori e quindi di riflesso, One Dimensional Man, Lent0, Ufomammut..
La lista è veramente molto lunga e si rischierebbe di tediare. Giusto per scomodare anche band dal genere distante dal nostro: Battles, Sunn0))), Portishead, Magma,Tool e Mars Volta.