E’ compositore, arrangiatore, produttore discografico, nato a San Paolo in Brasile studia composizione e pianoforte al conservatorio di Santa Cecilia in Roma. Durante il percorso lavorativo per un lungo periodo è stato al fianco del maestro Dario Argento per la composizione di numerose pellicole genere horror.
Al microfono di Patrizio Longo, incontriamo Claudio Simonetti. Bentrovato, Claudio!
Ciao, eccoci qua! Mi racconti di Profondo Rock di Gabriele Lucantonio, la prima biografia su Claudio Simonetti? In realtà non nasce da una mia idea, ma da un’iniziativa della giornalista italo-francese Gabrielle Lucantonio, che vive a L’Aquila ma che lavora con molte riviste francesi che riguardano cinema, colonne sonore… In Italia lavora con il Manifesto: cura tutte le rubriche di Alias, il supplemento del sabato. È una grande appassionata della mia musica e di Dario Argento, e si è offerta di scrivere la mia biografia. Per me è stato un grande onore, soprattutto trattandosi di una giornalista così preparata.
Cosa ricordi del tuo incontro, a 18 anni, con Walter Martino, figlio del cantante e pianista jazz Bruno?
Io e Walter ci conoscevamo già di vista: frequentavamo lo stesso negozio di dischi, ci salutavamo, ma non eravamo mai stati presentati. Ognuno dei due sapeva chi era l’altro, ed anche i nostri genitori erano molto amici: mio padre aveva fatto molti arrangiamenti per Bruno Martino. La chiamavano estate, per esempio, ed altri suoi grandi successi degli anni ’60. Con Walter abbiamo fatto conoscenza quando stavamo andando a suonare con Il rovescio della medaglia, un gruppo rock degli anni ’70, rimasti senza batterista e pianista. Abbiamo fatto un po’ di prove con loro prima di andarcene, incontrare altri musicisti e formare Il ritratto di Dorian Gray: il mio primo vero gruppo rock, dopo tante piccole band nelle cantine. È stata la mia prima esperienza vera.
Come nasce la band Il ritratto di Dorian Gray?
È nato come un gruppo per suonare nei locali: facevamo cover dei Deep Purple, Genesis, Who, Yes, King Crimson, un po’ di tutto.
Un tributo al capolavoro di Oscar Wilde?
Sono sempre stato appassionato di quel tipo di letteratura, e abbiamo deciso di chiamarci come il mio libro preferito dell’epoca. Non c’era nessun riferimento musicale, né ad altro.
Nel 1974 nascono gli Oliver, una band con la quale ti trasferisci a Londra per una serie di concerti. Che aria si respirava nella Londra di quegli anni?
Ho avuto la fortuna di andare a Londra, la prima volta, nel ’69, con uno di quei voli charter per studenti. A confronto con l’Italia, che non era affatto un paese all’avanguardia, l’Inghilterra era al top: televisione a colori, canali che trasmettevano musica, molte radio… In Italia non c’era niente, in pratica. Londra era il riferimento: invidiavamo tutti quelli che ci vivevano e ci suonavano, e per molti italiani il sogno era di trasferirsi lì. Poi, nel ’72 sono partito militare, a Roma, ma ero in aeronautica: lavoravo durante il giorno, ma la sera ero libero e avevo la mia cantina dell’Eur e un piccolo studio di registrazione. Lì, con Morante, a tempo perso – io militare, lui studente – abbiamo deciso di fare pezzi nostri e registrarli. E così sono nati gli Oliver.
Potremmo affermare che questo è il punto di svolta tra gli Oliver e i Goblin?
Sì, anche perché io e Morante abbiamo cominciato a fare provini. Ci serviva un bassista ed abbiamo chiamato il nostro amico Fabio Pignatelli, ed il batterista Carlo Pordini… non era ancora Walter Martino, anche lui ha fatto altre cose… e sono nati gli Oliver. Durante i provini cantava Massimo, ma a Londra abbiamo conosciuto un ragazzo americano, Clive Heinz, di cui ci piaceva la voce e che abbiamo preso come cantante. Quando ho finito il militare ci siamo trasferiti, e con i nostri provini siamo andati a molestare addirittura Eddie Offord, il fonico produttore degli Yes. Ha fatto dei dischi meravigliosi, anche con Emerson, Lake e Palmer, Gentle Giant… e lui, ascoltando le nostre cose, molto simili a quelle che lui produceva, ha deciso di darci una mano a realizzare questo disco in Inghilterra. Poi, purtroppo, lui è partito in tournee con gli Yes, e ci siamo persi di vista. Siamo rimasti a Londra, abbiamo fatto qualche concerto in università, college, in qualche locale, ma non era facile. Era come andare a fare il cantante napoletano a Napoli: c’era una concorrenza spietata.
Mi racconti dell’incontro con il maestro Dario Argento per la composizione delle musiche del film Profondo Rosso. Un incontro al buio nella nuova casa di Dario Argento?
È sempre tutto legato: nel ’74 siamo andati a Londra, e abbiamo fatto tutta quella serie di concerti e ri-registrato i provini. Però, visto che era difficile e che non avevamo la possibilità di rimanere lì, abbiamo deciso di ritornare in Italia. Feci ascoltare i nostri provini a mio padre, che era un artista della Cinevox Records, e li fece ascoltare a Carlo Bixio, l’allora il direttore artistico. Bixio decise di farci fare il disco. Il destino a voluto che, proprio nel periodo in cui eravamo in sala di registrazione, Dario Argento fosse in cerca di un gruppo rock per eseguire le musiche di Giorgio Gaslini. Tutti i film di Argento prodotti fino ad allora erano prodotti da Bixio, e tra le varie opzioni gli propose di ascoltarci mentre registravamo. E così Dario venne in sala, gli piacque molto quello che stavamo facendo, e scelse noi. Poi ci siamo incontrati con Gaslini, che ci ha dato delle partiture su cui abbiamo cominciato a lavorare. Lui aveva già iniziato a lavorare con l’orchestra, ma Dario voleva un sound più rock, e così noi abbiamo eseguito i brani del lato B della colonna sonora di Profondo Rosso. Poi il destino ci mise la mano: per qualche motivo, Gaslini litigò con Dario Argento. Un po’ perché era sempre impegnato in concerti, un po’ perché quello che faceva non era sempre in sintonia con quello che voleva Dario… ad un certo punto Gaslini se ne va. Allora Dario viene da noi e ci dice: «Ragazzi, Gaslini non c’è più, ma mancano i temi principali del film, i pezzi più importanti. Fateli voi.» Immagina: noi eravamo poco più che ventenni, e lui era già un mito. È stata una responsabilità enorme. Siamo entrati nella piccola sala di registrazione dell’Eur, e lì è nato Profondo Rosso. Glielo abbiamo portato in studio, gli è piaciuto, e abbiamo cominciato a registrare: un successo inaspettato. Eravamo abituati al fatto che col genere di musica che facevamo non si andava da nessuna parte, quindi immagina la sorpresa di vendere un milione di album di una musica che all’epoca non aveva alcun senso, in Italia. Nel ’75 c’era Anima mia, Cocciante, Baglioni… eravamo delle mosche bianche.
Siamo alla fine degli anni ’70, e Simonetti è al vertice delle classifiche dance americane con Give me e break. Un successo inaspettato?
Dopo la rottura con i Goblin, nel ’78, ho conosciuto il produttore Giancarlo Meo che stava facendo delle cose in studio. Avevo capito che la musica stava cambiando, che il rock era stato un po’ messo da parte. Così, con Giancarlo Meo abbiamo deciso di incominciare a fare delle cose dance, molto impensate in Italia: gli unici che avevano fatto successo con la musica dance erano i fratelli La Bionda, che registravano in Germania. Quando ho cominciato a fare la dance, eravamo dei pionieri. Ci chiedevano: «Siete matti? Vi mettete a fare le cose che fanno in Inghilterra, in America, in Germania?» Invece ho fatto il primo album, con gli Easy Going, che ha venduto subito tantissimo ed ha avuto molto successo. E poi il secondo album, di Vivien Vee, con Give me a break, che ha varcato l’oceano ed è andato ai primi posti in America. Anche lì un successo inaspettato.
In questo periodo nasce anche la collaborazione con Claudio Cecchetto, per la composizione delle musiche di Gioca Jouer?
Sì, perché in quel periodo facevamo molta promozione televisiva, e Cecchetto presentava Discoring. Siamo diventati amici, ed un giorno lui mi propose l’idea di questo pezzo in cui lui dava ordini e faceva ballare la gente. Sono tornato a casa, ho fatto la famosa tarantella, ed è venuto fuori Gioca Jouer. La fortuna, poi, volle che diventasse anche la sigla di Sanremo, dato che gli avevamo proposto di condurre l’edizione dell’80, diventando il più grosso successo del festival di quell’anno… pur non essendo in gara.
Durante questo percorso, che ti ha visto affacciarti verso altri scenari stilistici, hai sempre mostrato una certa predilezione per il genere thriller, come nelle diverse collaborazioni con Dario Argento. Cosa ti affascinava: lo stile del regista nel raccontare o il genere in sé?
Amo il genere: fin da bambino andavo a vedere tutti i film di vampiri, e ho sempre amato Hitchcock. Ero molto giovane quando ho visto L’uccello dalle piume di cristallo, il primo film di Dario Argento, senza sapere chi fosse. Non avrei mai pesato di poter lavorare con lui, un giorno. Ebbe un grande successo con quel film, che effettivamente stravolse tutta la cinematografia italiana, un po’ come fece Sergio Leone con Per un pugno di dollari. Ci siamo messi a fare un genere che non ci apparteneva, perché il thriller in Italia – a parte il grande Mario Bava, che è stato uno dei primi – non esisteva. Mentre invece Leone aveva lanciato lo spaghetti western, e poi c’erano i film storici, come Ursus, Maciste, Quo Vadis?, Ben Hur… gli italiani sono sempre stati molto bravi a fare le cover delle cose. Dario Argento è stato il primo a lanciare il thriller un po’ alla Hitchcock, calcando un po’ più la mano e lanciando il famoso “giallo”. È un termine usato ancora oggi, anche in America: se dici “giallo” loro capiscono che si tratta di thriller italiano, lo si legge anche in molti articoli, e questo lo si deve ad Argento. Poi anche lui è stato stra-imitato, anche da registi italiani come Pupi Avati, e tanti altri.
Adesso parliamo di raccolte: Simonetti Horror Project (1991), una raccolta di musiche da celebri film horror, come Profondo Rosso, Suspiria, Tenebre e Phenomena. Ed ancora, a metà degli anni ’90, arriva la seconda raccolta: X-Terror Files, con le musiche composte per X-Files, Halloween, Blade Runner, 1997: Fuga da New York. Un altro record di vendite. Perché le persone sono così vicine ad un genere che fa paura?
Questo me lo sono sempre domandato, perché in realtà molta gente ama le musiche di questi film pur non avendoli visti. Se tu chiedi ad un odierno ragazzino di 15 anni che ha la suoneria di Profondo Rosso di che film si tratti, lui non lo sa. Sa che la musica gliel’hanno sempre fatta sentire, anche in televisione, durante quiz e reality, e quindi pur non conoscendo il film amano il genere. È questa la cosa straordinaria della musica: sopravvive al film ed ha una sua vita. Come Profondo Rosso, che è un pezzo magico: ogni volta che l’abbiamo fatto ha avuto successo, in qualsiasi forma venga riproposta, anche quando altri l’hanno rifatta in versione discoteca. Forse risveglia qualcosa che è nelle persone, non lo so. Molti mi dicono che ogni volta che lo sentono si spaventano, ma è una cosa che non posso condividere: quando l’ho composta era un genere che già facevo, con gli Oliver e i Goblin, quindi per noi è un brano come un altro che ci apparteneva culturalmente. Poi, dopo, abbinandolo alle scene, è diventato un pezzo che mette paura. Non mi so spiegare perché, ma la gente è sempre affascinata dall’horror e dalla musica horror. Se guardi le classifiche cinematografiche, di solito su dieci film sei o sette sono del genere.
La tua forte attitudine a sperimentare propone, alla fine degli anni ’90, Classic in Rock: partiture di musica classica interamente riproposte in chiave rock. Dove nacque questo lavoro?
Nasce sempre dagli anni ’70.Si tratta di esperimenti che molti hanno fatto prima di me: Deep Purple, i concerti rock fatti con orchestra sinfonica, gli stessi New Trolls fecero un grosso concerto in Italia. Gli Exception, un gruppo olandese che mi piaceva moltissimo, facevano proprio questo genere: prendevano Bach, Mozart e lo riproponevano in chiave rock. L’hanno fatto in tanti, basti pensare a Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, che se lo senti bene è l’Aria sulla quarta corda di Bach o l’Ave Maria di Gounod. Per cui, mi era venuto in mente di rilanciare certe cose con quelle sonorità anni ’70. Ha funzionato molto bene, infatti mi piacerebbe farne una seconda versione più aggiornata, con altri brani, e non è escluso che lo faccia in futuro. È una cosa molto bella e divertente: io trovo che tra il rock e la musica classica ci siano molte affinità.
Chi è Simonetti, oggi: uno sperimentatore o un nostalgico?
No, nostalgico mai, per carità! Non fa parte della mia natura: guardo sempre avanti. Forse perché sono dell’acquario, un segno che vive sempre nel futuro. Il passato mi serve solo come esperienza per progredire. Non mi fermo mai sugli allori, e non credo mai di essere “arrivato”. Ci sono ancora tante cose da fare. Ho anche variato genere, come tante altre cose nella mia vita, ma solo per il gusto di sperimentare, di fare cose nuove. Non per seguire correnti commerciali o cose del genere. Anzi, delle volte ho fatto anche delle scelte molto difficili, che non sempre hanno avuto un grande esito. Però mi piace sperimentare, sono sempre stato un pioniere. Ho comprato il mio primo moog nel ’72, e quindi mi è sempre piaciuta la musica elettronica. Ho sempre cercato di cambiare, di non ripetermi mai. Altrimenti uno poi si fossilizza, e diventa un lavoro monotono invece di un lavoro creativo.
Claudio, ti ringrazio per la disponibilità. In bocca la lupo per tutto, e alla prossima!
Grazie tante, e a presto! Ascolta intervista audio a Claudio Simonetti.