Incontriamo Japanese Gum con Paolo Tortora e Davide Cedolin per raccontare del primo album, di recente pubblicazione, su Friend of mine records: Hey folks!
Nevermind, we are all falling down.
Un lavoro che soddisfa le vostre aspettative?
Davide & Paolo: L’intera elaborazione dell’album è stata ponderata al dettaglio: è stato un lungo parto, siamo stati oltre due anni in studio, tra registrazioni e mixaggi; ci sono stati momenti anche scoraggianti, nei quali non riuscivamo a vedere una fine del tutto, ma fortunatamente siamo sempre riusciti ad avere l’obiettivo finale abbastanza nitido e a non perderci troppo in fronzoli grazie anche alla pragmaticità e razionalità di Martino Sarolli, indispensabile nella realizzazione del disco. Quindi si, l’album direi che soddisfa le nostre aspettative totalmente, le uniche riserve che abbiamo sono solo circa le tempistiche che ci sono state per la sua definizione, lunghissime, e quindi conseguentemente, per la sua uscita, che sarebbe dovuta avvenire già da un bel po’ di tempo.
Quali le difficoltà incontrate alla pubblicazione del primo disco?
Davide & Paolo: Beh, indubbiamente è stata una bella esperienza, che ci ha fatto crescere molto: non era la prima volta in studio ovviamente, ma tutte le altre volte eravamo concentrati su meno composizioni, e quindi eravamo nella condizione di mantenere il fuoco sulla globalità del lavoro con maggior facilità. Probabilmente la parte più complessa è stata proprio metterci in discussione con l’assemblamento di un disco dal minutaggio che supera sensibilmente la lunghezza dei nostri precedenti e.p.
Poi sicuramente difficoltà ce ne sono state di varia natura, dal scegliere quali pezzi mettere nel disco, e quali no, decidere tra quest’ultimi quali cestinare e quali tenere in considerazione per future uscite, utilizzare un synth piuttosto che un altro, dare l’ordine sequenziale dei brani, trovare l’armonia necessaria d’insieme.
Si conferma una linea melodica fra rock ed elettronica. Una scelta che diventa un segno identificativo per i Japanese Gum?
Davide & Paolo: La grande e imprescindibile costante nel nostro lavoro è la sperimentazione che mira a trovare nuove forme di contaminazione tra i vari linguaggi che sia il rock, sia l’elettronica mettono a disposizione di tutti. Di recente ci siamo ritrovati a riarrangiare alcuni pezzi quasi acusticamente, come in passato ci era capitato di suonare dal vivo versioni totalmente elettroniche-dub oriented di nostri pezzi, e ci siamo resi conto che entrambe le soluzioni potrebbero essere assolutamente vagliabili come definitive. Questo ci ha fatto capire di come magari la semplice scelta degli strumenti da utilizzare in un pezzo, possa darti il reale input per la sua realizzazione.
Tutto questo ha rafforzato in noi la volontà di continuare a plasmare il suono in base alle nostre necessità espressive, non diventare schiavi o succubi di un vero e proprio marchio di fabbrica, se non quello della capacità di cambiare. Al centro di ciò c’è la melodia, ma anche l’aspetto più rumoroso e meno lineare, ci sono i feedback e i drones, le parti meno melodiche così si può dire.
Anche questo disco come i precedenti singoli sarà distribuiti in free download dal vostro sito?
Davide & Paolo: È una delle opzioni che abbiamo in testa, ma certamente non nell’immediato. Questa volta stiamo lavorando con una realtà un po’ diversa, la Friend of mine, oltre ad essere la nostra prima label straniera, ha un metodo di lavoro che è differente dalle etichette avute in precedenza, e quindi si sta ragionando le possibili alternative a disposizione con molta tranquillità, senza fretta. Sicuramente al momento è possibile acquistare il nostro album digitalmente tramite lo store di iTunes e probabilmente in altri online shop giapponesi.
Quali gli ascolti che hanno influenzato questo lavoro?
Davide: Non è facilissimo risponderti perché è passato un po’ di tempo dalla fase di scrittura… però ricollego quel periodo della mia vita ad alcuni dischi in particolare, principalmente per altri motivi però. Dovessi dartene cinque al volo, Yellow house dei Grizzly Bear, Tender buttons dei Broadcast, The cycle of days and Seasons degli Hood, l’omonimo dei cLOUDDEAD e Dub housing dei Pere Ubu.
Paolo: Il disco è contaminato da moltissimi dischi che abbiamo ascoltato durante la lunga produzione del nostro lavoro. A quelli di Davide, validi sicuramente anche per me, aggiungerei anche Blonde Redhead, Dirty Projectors, Akron Family, Hrsta, Matt Elliott, Odd Nosdam, Valet, Deerhunter tanti tanti altri.
Ci sono degli aspetti sonori che avreste voluto evidenziare?
Davide: Direi che tendenzialmente quelli che ci eravamo posti come obiettivi prima dell’inizio dei lavori, con più o meno fatiche, sono stati conseguiti e di conseguenza siamo sereni in questo senso. Poi comunque è ovvio che a posteriori trovi sempre qualcosa che non ti torna come vorresti, ma credo sia parte del gioco.
Quali sono le band indie italiane che ammirate e con cui vorreste stabilire una possibile partecipazione?
Davide: Devo dire che siamo fortunati: al primo disco siamo riusciti già a collaborare, anche se in modo diverso, con due delle band che apprezziamo maggiormente in italia, Blown Paper Bags e Father Murphy. I primi, con il fattore vicinanza geografica a nostro vantaggio, hanno vissuto più o meno passo a passo l’evoluzione del disco, Martino il batterista è il nostro uomo di fiducia in studio e ha suonato le percussioni e le batterie reali. Matteo ha suonato diversi synths e fatto alcune parti di piano elettrico, mentre Ela ha cantato in due pezzi. Con i Father Murphy la collaborazione per Under a pale coldsky è andata diversamente, eravamo ad un punto abbastanza critico nella definizione del brano: le parti vocali che avevo fatto non mi convincevano e le dinamiche a livello ritmico erano un po’ piatte; e allora ho pensato di proporre a Freddie di collaborare, estendendo la partecipazione anche a Chiara Lee.
Io e Paolo abbiamo sempre apprezzato tantissimo il lavoro dei Father Murphy, ed in particolare le soluzioni che hanno a due voci, quindi ci è venuto naturale provare ad interpellarli a riguardo. Il risultato ci è piaciuto tantissimo, tant’è che credo che le loro siano le parti vocali migliori dell’album.
In generale apprezzo diverse realtà musicali italiane, anche molto lontane a livello di proposta, e certamente posso affermare che anche nel prossimo album lavoreremo con musicisti esterni al gruppo. Da quando siamo in due abbiamo sempre pensato ai Japanese Gum come ad un’entità dal nucleo costitutivo di due persone sole, ma con un’apertura totale verso featurings, sia in studio che dal vivo. Al momento il nuovo materiale è ancora acerbo, non appena avremo le idee più chiare sicuramente inizieremo a pensare chi contattare. Per ora l’unica certezza è che siamo alla ricerca di un Mc, che possa partecipare in alcuni frangenti di tre pezzi.
Paolo: Ci sono molte band che varebbe la pena citare. I Father Murphy sono uno di quelli che apprezzo maggiormente. Sono molto felice che abbiano accettato di collaborare con noi. Oltrettutto penso che, nonostante la canzone in origine non fosse pensata per un featuring, abbia un mood che si abbina perfettamente al loro cantato.
Dalle vostre parole si può dunque affermare che dovremo abituarci a cambiamenti continui?
Davide: Credo di si; non ci interessano cambiamenti fini a se stessi, ma per noi è davvero importante a livello creativo metterci in discussione, e non adagiarci su qualcosa solo perché l’uscita precedente aveva funzionato a livello di riscontro.
La cosa fondamentale è avere la consapevolezza di lavorare sempre con libertà per poter trovare i giusti strumenti e mezzi per esprime le nostre idee. Ascoltiamo davvero di tutto, vediamo film, leggiamo, amiamo viaggiare: tutte queste cose possono influenzare inaspettatamente e ognuna di esse in modo diverso, quindi è giusto mantenersi recettivi e sulla corda per potersi anche “ascoltare” meglio.
Paolo: Il cambiamento è per noi fondamentale e sta alla base della nostra ricerca sonora. E’ il motore che ci fa muovere e che ci stimola a trovare nuove soluzioni piuttosto che riutilizzare nostre scelte stilistiche. E poi sta alla base del processo creativo il quale risponde alle esigenze del momento. E visto che difficilmente saremo gli stessi di un anno fa, saremo naturalmente indotti al mutamento.
Inoltre a noi piace esprimere diverse idee sonore che in fin dei conti convivono in noi. Dopotutto perché colorare il mondo sempre con lo stesso colore?
L’appartenenza ad un genere musicale per me non è cosi importante, anzi è solo una gabbia per quello che fai. Quindi vorrei prescindere da questi concetti. Per esempio, se domani sentissimo di avere la necessità di fare pezzi folk, allora senza problemi cambieremmo. Senza interessarci dell’eventualità di deludere o no persone che si sarebbero aspettati altro da noi.
Prima si parlava di composizioni che avete tagliato dalla tracklist finale del disco. In base a cosa avete fatto queste scelte?
Davide: Tra pezzi completi, abbozzi e provini, siamo arrivati alla composizione della tracklist con un totale di circa diciotto-diciannove canzoni. Abbiamo quindi deciso di elaborare la sequenza cercando di trovare il giusto equilibrio tra parti più sperimentali e parti maggiormente melodiche, tra le parti più ambientali e quelle maggiormente dinamiche. E portando avanti le cose ci siamo ritrovati a compilare la lista con abbastanza naturalezza, preferendo di tenere fuori il materiale più recente che anche a livello di coesione appariva stridere. In più non volevamo bruciare cose meno rifinite rischiando di doverle in un certo senso andare a correggere per uniformarle al resto del disco. E’ da questi brani che siamo già partiti per la realizzazione del seguito di Hey folks! Nevermind, we are all falling down.
Paolo: La scelta della tracklist è sempre una scelta dura e complicata. Ci sono molte cose da valutare nello scegliere le canzoni che finiranno in un album. La resa finale è sicuramente un elemento importante, ma sicuramente non il solo. Bisogna valutare il disco nel suo insieme ed avere in mente che andamento volergli dare. Quindi incastrare le canzoni in modo da ottenere quello che in letteratura potrebbe essere il ritmo narrativo.
Quindi, partendo da questo presupposto, le canzoni che abbiamo accantonato, a parte certe che erano stilisticamente troppo distanti da queste composizioni, sono state quelle che, alle nostre orecchie, davano problemi al flusso globale del disco.
Quale sarà il titolo del lavoro?
Paolo: Il titolo, proposto da Davide, mi è subito piaciuto perché riesce ad esprimere con parole semplici in una forma colloquiale una situazione di disagio che abbiamo, e che penso molti possano condividere, nei confronti di questa società, di tutto ciò che ci circonda. Non lasciamo molto spazio all’ottimismo, non diciamo che le persone non devono preoccuparsi perché tutto questo finirà, ma piuttosto diamo solidarietà agli altri a cui diciamo che non sono soli in questo eterno cadere.
Dei testi sicuramente può parlare di più Davide dal momento che li scrive. Per quanto riguarda invece la loro relazione con la musica posso dire che consideriamo la voce al pari di un altro strumento. È un elemento che, al pari delle chitarre o di altri strumenti suonati, conferisce alla canzone un’emotività che sentivamo mancare nei nostri ultimi lavori che si limitavano ai soli suoni digitali e che ancora inseguiamo.
Le persone, inclusi noi, stanno ricominciando ad avere il bisogno di sentire il calore dell’imperfezione. L’elettronica, che secondo me sta vivendo un periodo di crisi in quanto musica il cui contenuto essenziale è l’elettronica stessa, sta (ri)iniziando a mutare in un mezzo di supporto per la musica più suonata. In futuro anche noi lavoreremo di più in questo senso, cercheremo un equilibrio maggiore tra le due cose.
Davide: Hey folks! Nevermind, we are all falling down è un titolo che avevo in mente già da diverso tempo. Proposto a Paolo e ricevuto consenso, l’ho prima ipotizzato come titolo di un pezzo strumentale (Raskol’Nikov n.d.a.), poi ho creduto che concettualmente avesse un respiro più ampio che per un unico pezzo e quindi ho ragionato sulla frase come ipotetico titolo del disco, e si è quindi deciso di usarlo in questo modo dopo averne parlato. Il senso del titolo è una sorta di rassegnata ammissione fraterna e una consolazione, con come interlocutori ipotetici conoscenti stretti. Ma anche qualcuno di estraneo forse, che viene invitato spassionatamente a non preoccuparsi di essere l’unico a subire la deriva culturale e sociale contemporanea, e che si trova in compagnia di molte persone con le stesse sensibilità. È un modo per dire, sintetizzando, che nel collasso mondiale che sta avendo luogo, nessuno è solo, e che purtroppo la condizione generale abbraccia tutti. È tutto molto democratico forse.
Il titolo con ovvia accezione ironica deve essere interpretato come un modo per non sentirsi vittime, per non piangersi addosso, un modo per riuscire ad analizzare la realtà con una punta di sarcasmo ed ironia, per non perdere il lume e sprofondare nell’immobilismo. I titoli delle canzoni, e i testi hanno sicuramente importanza, ma forse in modo diverso rispetto a come se ne tratta abitualmente. Per noi la voce è al pari degli altri strumenti come diceva Paolo, i suoni vengono prima di tutto, e conseguentemente non ci interessa imporre il cantato e di farlo sovrastare sulle altre parti. Cerchiamo una nostra personale forma di armonia, e la voce è solo un elemento all’interno dell’architettura globale. I testi li ritengo fondamentali dove presenti, anche se non credo che la cosa importante sia la loro immediata comprensione. Generalmente penso di parlare di temi abbastanza canonici, amore, guerra, società, senso di inadeguatezza, euforia, apatia, ma ovviamente con un mio criterio, una mia necessità compositiva, che è al di fuori di una strutturazione prettamente narrativa; ritengo che non sia importante alcuna precisa ed universale comprensione da chi ascolta.
Nelle canzoni mi piace parlare di esperienze di vita, suggestioni magari dettate da un minuscolo dettaglio, e conseguentemente non penso che anche cercando di essere più descrittivo l’ascoltatore riuscirebbe a calarsi nella parte, quindi per me la cosa importante in questo senso è l’interpretazione: mi piace suggerire temi, spunti, opinioni in modo non invadente, molto astratto se vogliamo, così che ognuno possa rivivere le mie parole a modo proprio. Non credo di essere nella condizione, ne per altro mi interesserebbe, per poter esprimere una mia emozione e porla al di sopra di altre o darle valore assoluto ed indiscutibile.