I suoi lavori sono cadenzati nel tempo. Solo quando ha qualcosa da dire propone un disco che suona di «pop italiano». È musicista conosciuto a livello internazionale per stile, bravura e cantante. I suoi lavori propongono all’ascoltatore sempre nuovi schemi stilistici che mescolano i vari generi musicali senza mai dimenticare la musica d’autore italiana. Ha da poco pubblicato .23 un disco che vanta collaborazioni internazionali quali il bassista Darryl Jones, il batterista Paco Sery, il sassofonista Bob Franceschini e l’arpista Cecilia Chailly. All’album ha partecipato anche uno fra i nomi più illustri del momento, il violinista e arrangiatore Davide Rossi.
Al microfono di Patrizio Longo, incontriamo Alex Britti. Bentrovato!
Grazie, eccomi qua!
Una licenza poetica, con .23. Un lavoro che incentra l’attenzione sulla persona e non sull’altro?
Sì, sulla persona. Sul musicista, e soprattutto sull’artista.
Quindi è un album autobiografico?
Senz’altro, perché è il mio modo di scrivere. Io racconto, quindi per me le parole che scrivo sono l’equivalente del diario segreto di qualcuno. Che nel mio caso non è segreto, perché diventa pubblico. È un modo per sfogarsi, come se raccontassi le cose ad un amico immaginario. È più autobiografico dei precedenti perché penso che ormai, dopo anni di questo mestiere, ho imparato a mettere sempre più a fuoco le cose che ho intenzione di scrivere. Le parole focalizzano meglio i concetti. Per quanto riguarda la musica.
A proposito di musica, sembra che in questo disco sia stata perfezionata ulteriormente la qualità del suono e della registrazione?
Sì, ho lavorato tanto su questo. Ho spento il computer. Finora avevo prodotto da solo i miei dischi, suonando tutti gli strumenti e programmando il computer. Stavolta, invece, l’era del computer come strumento per fare musica è finita. Negli anni ’90 ascoltavo solo Massive Attack, Prodigy, Eels tutte sonorità da computer. Adesso bisogna andare avanti, ci si deve evolvere, trasformare. Adesso uso strumenti veri e musicisti ma, dopo dieci anni di lavoro al computer, continui ancora a “pensare da computer”. Quindi a pretendere e ad esigere certe cose, sia da me stesso con la chitarra che dagli altri musicisti. Una mente da computer, abituata ad essere soddisfatta dal lavoro del computer. Mi ritrovo ad essere molto più esigente, più tecnico. Però, al contempo, lavorando con delle persone cerchi umanità, e quindi delle sonorità più umane, più sincere.
Numerose collaborazioni con grandi della musica internazionale, per questo .23. Come le hai scelte?
Ho scelto musicisti che mi piacciono. Semplicemente. Li ho contattati, anche se sono musicisti che di solito non fanno il pop. Gli è piaciuto quello che faccio e son venuti a suonare. Il batterista dall’Africa, Paco Sery, il bassista degli Stati Uniti, Darryl Jones, e poi c’è un sassofonista americano, Bob Franceschini. Oltre ad un’italianissima Cecilia Chailly, che suona l’arpa in .23, proprio il pezzo che da il titolo all’album.
Provieni da una famiglia che non ha riferimenti con lo spettacolo. Quanto è stato difficile affermarsi, far capire la tua strada?
Non troppo, i miei sono sempre stati contenti di questo mio “gioco”. Parlo di “gioco” perché ho iniziato quand’ero molto molto piccolo. All’inizio la cosa li divertiva molto, e quindi mi lasciavano fare tranquillamente. Non hanno mai “opposto resistenza”, non mi hanno mai impedito di fare quello che mi piaceva. Una volta cresciuto un po’, magari, rompevano le scatole quando iniziavo a cambiare tipo di musica, a suonare nei locali, e a tornare tardi. Lì li ho trovati abbastanza contro e ho risolto… andandomene, andando a vivere da solo.
Spesso nelle tue canzoni si parla di amore, ma soprattutto di complicità?
È la complicità che tiene insieme due persone. Senza di essa può anche esserci affetto, ma poi la storia finisce. Le storie iniziano, ma dopo i primi mesi… cinque, tre, sei, otto… ma anche dopo un anno di passione, di sesso, di attese di un messaggio o di una telefonata di una persona che ti manca, solo allora diventa una storia vera… “se” diventa una storia vera. E allora a quel punto serve la complicità, che è ciò che dura oltre quella passione esplosiva iniziale.
Al microfono di Patrizio Longo con Alex Britti, per raccontare di .23, un lavoro senza canzoni riempitive, ma solo protagoniste?
Sì è quello che mi auguro. Ti ringrazio per averlo detto. Quando scrivo canzoni non penso ai singoli, penso – come ti dicevo – al mio diario. Devo suonare qualcosa che mi stimola. Una volta finito, magari ci pensano più i discografici a dire: «Questa va in radio, questa no.»
Parlando del talent show X-Factor, ritieni sia un buon modo per proporre la musica in Italia?
Sì, l’importante è proporre musica. La musica, buona o cattiva, non la fa una trasmissione: la fanno gli artisti. La trasmissione ti da la possibilità di andare in televisione, e quindi lunga vita a X-Factor.
Ci salutiamo con una canzone. Quale ci proponi?
Buona fortuna e canto l’assolo. (canticchia un motivetto). È un omaggio a George Benson, una citazione. Buona fortuna è una canzone serena. Una canzone adulta, credo, e mi piace. Mi fa stare bene, mi piace suonarla e ascoltarla.
Allora, “buona fortuna”!
Esatto, è anche di buon auspicio! Buona fortuna a tutti!
Grazie di tutto. Ciao Alex!
Grazie a te e a tutti quelli che ci ascoltano! Ascolta intervista audio ad Alex Britti. foto: Ufficio Stampa Universal