Un’altra icona della musica rock alternativa italiana al nostro microfono. Molti lo chiamano “Re Mida” a voler sottolineare la creatività di Gianni Maroccolo che con disarmante modestia rifiuta questo termine. Artista che da oltre vent’anni è presente sulla scena come musicista e produttore artistico.
Abbiamo voluto concludere questa rassegna del Rock anni ’90 incontrando da Giovanni Lindo Ferretti, con cui ha collaborato attivamente, a Ghigo Renzulli, Ginevra Di Marco e Francesco Magnelli.
Con Marok abbiamo ripercorso gli anni ’80 a Firenze, fucina dell’Arte e della musica New Wave italiana. La sua avventura inizia con Litfiba che lo vedono suonare il basso, fedele compagno d’avventura. Ed una rivelazione la chiusura del progetto PGR che arriverà fra pochi mesi. Maroccolo afferma: “Sarà un arrivederci fra me, Giovanni e Giorgio. Sarà il disco d’addio…”
Gianni racconta anche del rapporto che ha con internet strumento indispensabile come un’estensione del se e della sua nutrita collezione di dischi di svariati Artisti italiani.
Eccoci al microfono di Extranet, questa notte incontriamo Gianni Maroccolo.
Ciao, a te e a tutti gli ascoltatori.
Ti hanno definito il Re Mida, colui che tutto quello che tocca lo trasforma in oro, in quest’ascesa che ti ha visto sia produttore, sia musicista, in questo così svariato mondo pieno di colori della musica?
Mah, non lo so, non credo che sia così. Diciamo che mi sono divertito in questi anni, e ho avuto anche un po’ la fortuna di scegliere bene, di collaborare con artisti di valore e di talento. Perché ho sempre scelto, ho sempre optato per la musica d’insieme, per condividere ogni esperienza musicale. Diciamo che è anche stata una vota di sacrifici, in certo momenti. Credo che alla fine mi abbia gratificato, mi abbia dato un sacco di soddisfazioni, appunto, il saper aspettare, il saper scegliere. Bisogna anche aver la fortuna di incrociare le persone giuste, in qualche modo. Un po’ come nei rapporti umani, voglio dire: se si è in due, o in tre, è meglio. L’importante però è trovarsi in maniera giusta. È andata bene in quel senso lì, ecco, quello di sicuro, però “il re Mida” mi sembra un attimo esagerato.
La tua avventura musicale inizia intorno agli anni 80, nei Litfiba. A proposito di rock, mi descrivi in modo confidenziale il tuo rapporto con Piero Pelù e Ghigo Renzulli. Com’era in quel periodo, c’era questo feeling?
C’è stato sicuramente. Ci siamo conosciuti, abbiamo iniziato tutti insieme da zero. Siamo cresciuti e abbiamo condiviso un sacco di cose, anche fondamentalmente forse anche gli anni migliori delle persone. Dai venti ai trent’anni, quando ne combini un po’ di tutti i colori. Diciamo che è l’incoscienza, la gioventù, l’inconsapevolezza. L’ignoranza, se si vuole, un po’ anche la fame ha tenuto questo pugno ben chiuso, ben saldo, nel momento in cui i caratteri di ognuno si sono manifestati. E quindi le esigenze private di ognuno di noi. Comunque sia i Litfiba son stati bersagliati da pressioni che non avrebbero mai immaginato di dover subire. Dal business, e da chi ci produceva, ecc. ecc.. Diciamo questo pugno si è aperto, ed ognuno in tutta la situazione… voglio dire si è aperto sia umanamente, che artisticamente, che professionalmente a carciofo, e ognuno ha preso la sua strada. Comunque questi son stati dieci anni indimenticabili che comunque credo continuino a legarci e credo che ci legheranno per tutta la vita, anche se non abbiamo molte occasioni di vederci, di incrociarci, ora.
Sei nativo di Grosseto, ma trasferito a Firenze negli anni ’80. Quanto ti ha influenzato, artisticamente, vivere nella fucina della musica indipendente?
Diciamo che mi son trovato nel posto giusto al momento giusto, questo di sicuro. Quegli anni sono stati un po’… ci si può immaginare. È come se dopo una giornata di sole e di pioggia uno va dentro un bosco e potesse vedere a velocità velocissima i funghi che vengon fuori da sotto terra. Diciamo che quest’immagine qui è stata l’immagine di Firenze di quegli anni. Ogni 5 minuti veniva fuori un fungo, insomma, ed era musica, erano locali, erano etichette, erano radio, erano nuovi stilisti di moda, grafici, comici, attori, imprevisti. E quindi ti puoi immaginare che razza di fermento e che tipo di vita ci fosse. Poi, per di più, quella vita lì, e quel tipo di fermento, e quella piccola, voglio dire, piccolissima rivoluzione, diciamo, che c’è stata in quegli anni lì aveva ancora più effetto devastante perché veniva subito dopo gli anni di piombo, il terrorismo, insomma periodi in cui non si stava bene voglio dire. È stato come stappare un tappo che per troppi anni era stato chiuso a forza. È stata una bellissima esperienza di sicuro. Forse anche vista sopravvalutata nel tempo, o vista da fuori, per noi che l’abbiamo forse vissuta in prima persona. C’è veramente a ritenersi fortunati anche in quel senso, ad aver fatto parte di quel periodo.
Durante questo percorso artistico che mi piace, così, vedere come tanti istantanee messe insieme, arriva il 1990, momento in cui migri (passami questo termine) verso i CCCP insieme a Francesco Magnelli, Giorgio Canali e Ringo De Palma, e da lì poi ci sarà la produzione anche ti “Epica Etica Etnica e Pathos”.
In quel momento eravate un po’ l’emblema della controcultura?
Non so cosa dirti in quel senso lì perché io ho amato molto, amavo molto il gruppo, ancora quando suonavo nei Litfiba, li ho sempre seguiti e ammirati. Però devo dire che, essendo un musicista, sono sempre stato (rimasto) meno affascinato dal discorso immagine, come si può dire, o dall’iconografia di ciò che cercavano di rappresentare i CCCP. Son sempre rimasto affascinato dalle parole, da Giovanni, dal tipo di storia, in quel senso. Non credo che rappresentasse un’alternativa alla vera controcultura, però sta di fatto che era l’unica voce, diciamo, un po’ fuori dal coro. Sotto tutti i punti di vista e, sempre stando fra, come posso dire, l’autoironia, l’ironia e la serietà sociale e politica, voglio dire, è riuscita a creare sicuramente un punto di rottura. Parlando di un altra realtà, per motivi opposti sicuramente a quelli dei Litfiba, che sarà assolutamente ricordata nella storia della musica italiana per anni.
Incontrando Francesco Mangelli e Ginevra di Marco, qualche mese fa, e ripercorrendo questo momento storico di grande prestigio per la musica italiana, mi raccontavano che le canzoni nascevano sotto un profilo di collaborazione comune. Cioè non c’era un leader ma tutti davano il proprio contributo?
Assolutamente vero, questo. Sì lo posso sottoscrivere. Diciamo che i CSI, il gruppo, ma già quell’album lì… che poi “epica etica” è stato il primo album dei CSI anche se ancora si chiamavano CCCP. Non lo sapevamo ma stavamo facendo i CSI, in realtà. Devo dire che è vero è un gruppo particolare, i CSI, anche abbastanza unico, perché ha sempre prodotto le sue cose stando su un equilibrio veramente minimale, insomma. Ognuno si esprimeva, ed è difficile perché, stando in un gruppo di solito ci si esprime sottraendo qualcosa di se stessi, non aggiungendo. Diciamo che, senza bisogno di questo processo, in effetti i CSI sono andati avanti per quasi 10 anni, dando ognuno di noi il meglio di noi, e senza per questo, voglio dire, risultare per questo troppo eccessivi o andare ad invadere, diciamo, l’altrui creatività. Infatti è un meccanismo che è durato per quasi una decina d’anni. Poi nel momento in cui qualcuno del gruppo ha iniziato a voler capire, o a mettere in discussione quel tipo di alchimia, tutto ha scricchiolato ed è finito, insomma. Però ti dico che questo è vero. Diciamo che c’era la massima creatività e libertà artistica da parte di tutti. Poi io mi occupavo di, perché io di natura nel dna ce l’ho quello di quadrare il cerchio, curare un po’ di più l’arrangiamento, e quindi la parte produttiva delle cose, e Giovanni di dare un senso intellettuale e culturale al progetto, e al disco che si stava facendo. Ma è assolutamente vero, una piccola isoletta dove ognuno faceva quello che gli pareva.
Gli anni ’90 ti vedono percorrere due strade parallele: quella che ti considera un produttore discografico, mi riferisco al 1992 anno in cui nascono i Marlene Kuntz e quella dove nasce la collaborazione con i CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) che vede appunto Gianni Maroccolo, Lindo Ferretti e Massimo Zamboni. Come facevano a coesistere questi due binari, quello di produttore e quello di musicista. Non rischiava l’uno di influenzare l’altro?
Direi di no, anche perché io poi non sono stato mai produttore discografico dei CSI. Io mi sono occupato della produzione artistica dei CSI, che poi è un altra cosa. È un po’ il discorso che ti facevo prima che, diciamo, in qualche modo cercavo di mettere un pelino di ordine (se così si può dire) agli input creativi di ognuno dei membri dei CSI. ma in realtà non mi sono mai occupato di produrre discograficamente i CSI, non ne avrei avuto davvero la possibilità economica, oltre al fatto che non è il mio lavoro quello. Io ho avuto esperienze di produzione discografica diretta nel momento in cui abbiamo aperto il CP a Firenze, insieme ai dischi del mulo, che erano di Giovanni Di Massimo, in quel periodo mi sono occupato anche di produzioni discografiche, ovviamente indipendenti. Da lì è nata anche la collaborazione con i Marlene Kuntz, ecc. ecc.. Però diciamo che con i CSI io al massimo mi sono, oltre che essere un membro dei CSI, colui che li ha voluti, li ha formati, insieme a Giovanni.
Azzardo un giudizio: possiamo dire che il periodo dei CSI, con le produzioni “Linea Gotica”, da “Tabula Rasa Elettrificata” all’acustico, bellissimo a mio avviso, “In Quiete”, siano delle vere e proprie “perle uniche” e siano state anche il momento più fortunato della tua carriera artistica?
Io posso sicuramente dirti che non credo che sia, ma lo dico con tutta l’umiltà, voglio dire, credo che ci siano stati dei periodi fortunati della mia vita che vado a identificare, ad esempio nel periodo con i Litfiba, con 17 Re, a livello artistico e creativo nel periodo con i CSI con In Quiete, forse anche Linea Gotica, sicuramente anzi anche Linea Gotica. Credo che quelli siano i dischi che in qualche modo rimarranno, nel tempo testimoniano… rimarranno piccolissima testimonianza, insomma, del mio passaggio su questa vita, musicalmente parlando. E, dentro di me, essendo uno sperimentatore, uno che ha sempre amato rischiare, che non si è mai adagiato sui piccoli allori, sulle piccole conquiste, sulle piccole certezze, dentro di me spero che quel momento che stai dicendo te, il più fortunato, debba ancora arrivare, perché vuol dire che avrò ancora cose da dire, insomma.
Arriviamo al 2004, e in questo momento c’è un altra fotografia. Mi dici cosa si nasconde, qual è la sigla che si cela dietro l’acronimo A.C.A.U.?
Lì è la serie iniziata, voglio dire, nel giro di pochi mesi finisce l’esperienza dei CCCP, finiscono i CSI, altre situazioni familiari, private cambiano e si riparte da zero, e mi è venuta voglia di sperimentare hard disk recording, musica elettronica, ecc.. Ho ri-iniziato, perché già negli anni ’80 io venivo dalla musica elettronica, non sono stato arruolato al rock per caso, insomma, e ho iniziato a divertirmi spippolare un po’ di synth, ecc. È venuta fuori un po’ di musica e mi è venuto in mente di fare questo disco che inizialmente doveva essere strumentale, e che poi invece ho deciso di aprire a tutti gli amici che ne avessero avuto voglia, che avessero avuto voglia di esserci, a tutte le persone con cui, in qualche modo, avevo collaborato in questi quasi vent’anni. Insomma, all’epoca erano una ventina d’anni. Una notte ho scritto a tutti questi amici e tutti questi amici nel giro di due o tre giorni mi hanno risposto dicendomi si, e regalandomi A.C.A.U. in pratica.
A tuo avviso, per quale motivo oggi si parla tanto di inflazione da parte delle giovani realtà rock?
Credo che ci sia, che si faccia, che ci sia una percezione diversa nei confronti della musica. Cioè sia nei confronti di chi ne fruisce sia da parte di chi invece la produce. La musica ai miei tempi, non sto dicendo che sia un bene o un male, o che sia meglio o peggio, mi limito a constatare una cosa, a constatare delle cose. La musica oggi ha un altro utilizzo, è veramente intrattenimento puro o sottofondo. Nei miei anni, invece, con la musica ci si cresceva, ascoltando testi ci si cresceva, ci si aggregava, si sperava anche in qualcosa, ci si ci si formava anche caratterialmente ed ideologicamente. La musica oggi non ha questo tipo di potere, non ce l’ha più, l’ha perso. Così, il rock è stato mercificato non ora, ma già da diversi anni, per cui credo che sia normale che dei pischelli che iniziano a provare, dopo due mesi che sono in cantina, senza ancora sapere chi sono, se mai avranno un futuro e cosa vogliono fare, e cosa li lega, ecc. Siano già lì a buttar 12 canzoni e a dire “facciamo un disco”, visto che ora lo può far chiunque, e questa è una fortuna, e, allo stesso tempo, essendo tutto molto più superficiale il rapporto con la musica diventa anche molto più superficiale, voglio dire, ritrovarsi main stream estremamente alleggeriti da un disco a un altro. infatti oggi paradossalmente si ritorna un po’ come negli anni ’60, quando vai a comprare un album, ammesso che ancora qualcuno li compri, voglio dire, vai a comprare un album, se ti va bene ti ritrovi dentro un paio di canzoni belle. Il resto è tutta roba di scarsa qualità, questo vale per i big o per i pischellotti di vent’anni che stanno iniziando ora a suonare. È la stessa cosa. infatti ben venga la Rete, ben venga che si possa scaricare e ascoltare prima e, quando si è sicuri di non aver preso un pacco, eventualmente comprare. In questo senso qui, lo dico contro i miei interessi, viva la Rete!
La musica ha perso quella funzione di aggregatore sociale, è diventato puro intrattenimento, puro business?
È puro business, e lo è sempre stato in qualche modo, perché c’è sempre stato un rapporto diretto con il business. Nel momento in cui fai delle cose le vendi, sei dentro il commercio. Pero diciamo che ha perso, si, questo potere di aggregazione sicuramente. Il fatto di essere un alternativa è un’occasione che è stata persa anche politicamente, voglio dire, per certi aspetti, in tutti i sensi e socialmente, per di più. Quindi non è una questione di business, il business c’è sempre stato e ognuno è riuscito sempre a gestirsi in modo dignitoso. Bob Dylan, cioè, registrava dischi per delle major, però quello che diceva dentro quei dischi ha fatto crescere generazioni di persone con una certa mentalità, una certa ideologia, ecc. ecc.. Ora questo non c’è, c’è un usare la musica e gettarla. Un disco dura 20 giorni, sta in classifica una settimana, e avanti il prossimo insomma. Questo un po’ succede perché, ripeto, i tempi mutano. Un po’ perché probabilmente, anche la proposta musicale è più di scarsa qualità, e sicuramente un po’ perché, comunque sia, il mercato ci martella fin da piccoli attraverso la televisione, i media, ecc. ecc., le radio e tutto. Le persone le fa crescere pensando che ciò che si ascolta alla radio, ciò che si vede in televisione , o ciò che si vede in certe televisioni tematiche come Deejay, ecc., sia la musica nel mondo. In realtà quello è il 5-6% della musica che viene prodotta e suonata nel mondo, solo che le persone non lo sanno.
Guadando avanti, nella tua carriera, cosa vedi oggi?
Beh, oggi vedo sicuramente un gran disco di chiusura del progetto PGR che arriverà nei prossimi mesi. È un disco e un arrivederci tra me Giovanni e Giorgio, ma sarà il disco d’addio dei PGR. E questo progetto nuovo che si chiama IG che è uscito da un paio di mesi, che mi vede proiettato in tutt’altro ambiente in confronto a quello che ho sempre fatto in questi anni. È una collaborazione con una cantautrice di Brescia che si chiama Ivana e si parte a sperimentare altrove, insomma, con questi due progetti. E poi, smetterò di suonare con i Marlene Kuntz. Ho prodotto quest’ultimo album che è uscito da poco ma continuerò a seguirli artisticamente, anche come produzione artistica. E poi non lo so, sono alla ricerca appunto di quel periodo più fortunato che dicevi prima, chissà quando arriverà. Spero il più tardi possibile.
Forse la domanda ti sembrerà banale, ma, volendo curiosare virtualmente nella tua collezione privata di dischi, quali titolo troveremmo?
Nella mia collezione privata di dischi troveresti tantissima musica italiana, per di più l’80% non è mai riuscita a uscire discograficamente e entrare nel mercato perché ricevo settimanalmente 30-40 cd da anni. Li ascolto e apprezzo anche la qualità, mi tengono anche vivo, devo dire. Purtroppo non posso far molto perché non sono né una casa discografica né un magnate, ma poi troveresti Brian Eno, troveresti Zappa, i Led Zeppelin, Philip Glass, Matia Bazar, c’è un po’ di tutto, è molto molto eterogenea.
È la quadrature del cerchio: c’è stato Giovanni Lindo Ferretti ad aprirlo e tu a chiuderlo, in mezzo poi c’è stato Ghigo Renzulli, Francesco, Ginevra, ci sono stati questi grandi compagni di viaggio. La tua visione nei confronti della Rete, vedo che sei molto attivo sia dal punto di vista del tuo portfolio, della tua immagine nel tuo sito, sia poi con altre… qualcuno, qualche mio collega le definisce delle protesi emozionali. Altri canali di diffusione, di comunicazione?
Sì, credo tu abbia già detto tutto. Anni fa ho scelto di… ho trovato in qualche modo un’ancora e mi ci sono aggrappato, son partito da zero, perché io ho scoperto la Rete nel ’98-’99, 2000, cioè non è da molto, già il CD aveva un suo reparto web, il sito, un sacco di newsletter, ecc. ecc., però fondamentalmente fino ad A.C.A.U. io usavo il computer per scrivere e-mail e basta, Ad un certo punto l’ho visto sia musicalmente per emanciparsi, e non dover dipendere da nessuno l’uso del computer in genere, quindi applicato alla musica, sia scoprendo la Rete, ovviamente partendo da neofita, prendendomi tutte le solite fregature del caso, ecc. ecc., andandomi a scontrare con virus e qualsiasi cosa negativa, anche siti allucinanti, ecc. ecc., ho imparato a conoscere la Rete e ad apprezzare anche ciò che di positivo a me personalmente offriva e, ripeto, è stata un’ancora di salvataggio, anche perché molto modestamente posso dire che, già ne ’98 io (anche altri) avevo capito che il disco discografico era in crisi, che la musica stava cambiando la sua forma, a sua ragione d’essere e tutta una serie di cose. Per cui, diciamo, mi ero mosso un pelo in anticipo perché, essendo abituati da anni a lavorare in modo indipendente tra gli indipendenti, se non ragioni in questo modo sei tagliato fuori dalla vita, insomma, e professionalmente dalla musica. Quindi, ripeto, ben venga la Rete. Ha una serie di limiti, una serie di difetti, una serie di negatività molto pesanti però, ribadisco, per chi fa musica è un ottimo modo per regolarsi, per collaborare, per farsi conoscere e per conoscere, per rimanere attaccati a un certo tipo di realtà, anche se potrà sembrare paradossale. Perché comunque è molto più reale ciò che gira in Rete di ciò che ci dicono i telegiornali o MTV Italia, insomma.
Gianni, io ti ringrazio per questa confessione, per questa dichiarazione (dai, chiamiamola così che è più leggero come termine). Grazie veramente, e in bocca al lupo per tutto.
Alla prossima!
Ascolta intervista audio a Gianni Maroccolo.