Puah è un progetto cantautorale onirico e fuori dal tempo, lontano da tendenze effimere e dalla tecnologia. Con questo lavoro introspettivo, Alessandro Pagani celebra il ricordo personale delle conoscenze vissute nel passato, mantenendo uno sguardo attento sul futuro.
Il progetto rifugge dalla tecnologia più spietata a favore del recupero di un minimalismo ‘pop’, caratterizzato dall’errore umano che rende le composizioni più genuine. Il titolo dell’album richiama l’acqua, simbolo di purificazione intellettiva e presenza acustica nel disco.
Incontriamo Alessandro Pagani per raccontare di Puah un progetto tra suoni e racconti di vita.
Bentrovato Alessandro. Puoi raccontarci come è nato il progetto Puah e cosa rappresenta per te?
Dopo il secondo disco realizzato con Stolen Apple (“Wagon Songs” del 2020), avevo portato in ascolto al gruppo alcuni brani composti con chitarra e voce, che però sono risultati distanti dalle atmosfere della band. Così, spinto anche dagli Stolen, ho deciso di arrangiare i brani e di terminare i testi in autonomia. Puah, che è l’acronimo di Piccola Unità Anti Hi-fi, è il mio progetto solista, una sorta di ritorno al futuro musicale, quando al principio degli anni ’80 iniziai ad utilizzare il campionatore, la programmazione e l’elettronica con gruppi quali Thanatou Melos e Hypersonics, con cui partecipai ad Arezzo Wave nel 1991. Dal punto di vista creativo, Puah è un mio nuovo punto di partenza, nel quale ho messo in musica la percettibilità del momento in un compendio retro futurista di ricordi lontani, memorie sparse, visioni future e nuovi orizzonti sonori.
Cosa ti ha ispirato a creare un progetto cantautorale lontano dalle tendenze effimere e dalla tecnologia?
Volevo dare un senso, per chiudere col passato, alle esperienze vissute agli inizi del mio percorso musicale, non per mettere in atto un revival, ma per celebrare le stesse. A quell’epoca (si parla degli anni ’80), l’utilizzo della tecnologia era ancora abbastanza limitato, l’estemporaneità di una composizione nasceva attraverso la spontaneità e l’unicità del momento. Pochi artifici, genuinità dei suoni, artigianalità dei componimenti, devozione verso sonorità e strumenti analogici, erano attitudini comuni a molti. In ricordo di quegli anni, il progetto PUAH rifiuta, nonostante in parte se ne serva per necessità, la tecnologia più spietata, quella che inibisce l’errore e l’imperfezione, che invece ci aiutano a ricordare che siamo ancora esseri senzienti e non intelligenze artificiali.
Il titolo del tuo album richiama l’acqua come simbolo di purificazione intellettiva. Puoi spiegare meglio questa scelta?
Il concetto dell’acqua che si ripete nel disco, sia a livello acustico che metaforico, è inteso come una sorta di battesimo spirituale a cui dovremmo sottoporci di nuovo, visto le atrocità che stiamo commettendo nel nostro tempo. Forse è la storia che si ripete, forse l’uomo non riesce a liberarsi dalla spietatezza che si porta dentro e dietro da sempre, ma cercare di ripulirsi dalle impurità attraverso qualcosa di pulito, di limpido e scorrevole come l’acqua (il bene più essenziale che abbiamo, bene ricordarlo), sebbene in chiave astratta, potrebbe rappresentare un primo passo verso una nuova pulizia morale.
Come descriveresti il tuo percorso musicale dagli anni ’80 fino ad oggi? Quali sono stati i momenti più significativi?
Il passaggio dall’utilizzo dell’elettronica e delle tastiere alla batteria durante gli anni ’90 fu importante, da lì in me nacque una nuova realtà compositiva, nonché una diversa concezione live. Riguardo le esperienze vissute, non posso dimenticare il periodo trascorso con Valvola assieme a Gianni Antonino e Giuseppe Barone, con cui fondammo l’etichetta discografica indipendente Shado Records, attiva fino al 2007. Sintetizzando in poche parole il mio cammino musicale, direi che mi è sempre piaciuto appartenere al sottobosco underground fatto di cantine puzzolenti e situazioni improvvisate, in quel regno alternativo che mi ha sempre regalato un piacevole sapore di spirito punk, anarchia e soprattutto autenticità.
Quali differenze trovi tra il lavoro con i gruppi come Stolen Apple e il tuo progetto solista Puah?
Stolen Apple è una formazione prettamente rock, con basso, chitarre, batteria e voce. Puah invece si avvale principalmente di suoni elettronici (ho inserito soltanto una chitarra classica sopra le basi) e la voce principale è la mia. In più, a livello esecutivo, il potere decisionale con Puah è del sottoscritto, a differenza di Stolen Apple dove invece la stesura e gli arrangiamenti dei brani erano appannaggio di tutti.
Come è stato lavorare con l’etichetta Shado Records e quali sono stati i principali successi dell’etichetta?
Shado Records è stata un’esperienza indimenticabile, nata quasi per gioco ma divenuta poi nel tempo una realtà importante nel panorama discografico indipendente di quell’epoca. All’inizio volevamo soltanto dare maggiore visibilità al nostro gruppo – Valvola – poi abbiamo realizzato che potevamo espandere le nostre conoscenze e competenze anche al di fuori della band e, come una sorta di factory, abbiamo iniziato a collaborare con artisti da tutto il mondo, realizzando circa venti opere. I maggiori successi furono “Harpsichord 2000” – la prima compilation di una fortunata serie dedicata agli strumenti analogici e arcaici – dove artisti del calibro di Momus, Stereo Total, The Make Up, Cinerama e molti altri contribuirono suonando il clavicembalo (e strumenti affini) in chiave moderna ed il primo album dei Valvola, “Teenagers filmed their own life” uscito nel 1998.
Puoi parlarci delle influenze musicali che hanno contribuito alla creazione del tuo disco d’esordio come Puah?
Sicuramente il disco richiama echi di elettronica anni ’70 con velature new wave, fino ad arrivare ad aperture disco e atmosfere cinematiche morriconiane; parlando di artisti da cui ho tratto maggiore ispirazione citerei Kraftwerk, Can, Ariel Pink, Joy Division, Devo, Velvet Underground e Lou Reed, fino ad arrivare ai nostri giorni con LCD Soundsystem, PSB, Stereolab, The High Llamas, Battiato, Laszlo De Simone, Broadcast, Goldfrapp, Mazzy Star, MGMT, The Temper Trap, Interpol, Arcade Fire, senza dimenticare i grandi maestri italiani Berto Pisano, Piero Umiliani, Piero Piccioni, Armando Trovajoli, Riz Ortolani, Stelvio Cipriani ed altri artisti visionari di musica ‘oscura’ (mi vengono in mente Lesiman, Rapicavoli, Intra, Macchi, Usuelli, Plenizio, Franca Sacchi, Daniela Casa e molti altri compositori, che hanno dato tanto alla definizione di musica sperimentale e al connubio pop-avanguardia).
Che ruolo ha avuto il minimalismo ‘pop’ nelle tue composizioni e perché pensi che sia importante oggi?
Il termine ‘pop’ è divenuto nel tempo impopolare quando invece, nella sua accezione più estesa, significa un coinvolgimento dei sensi attraverso melodie semplici, orecchiabili, comprensibili e appunto minimali, che non perdono nel tempo fascino e modernità. Senza paura d’infrangere regole musicali o canoni mainstream e attraverso piena libertà compositiva, non dettata da forzature o condizionamenti esterni, la canzone pop minimale dovrebbe contenere il massimo della creatività con pochi mezzi. Forse adesso per ‘pop’ s’intende più lo strumento che la forma, per urlare all’esterno il proprio stato d’animo o di ciò che si vuole rappresentare. Invece, secondo il mio punto di vista, la canzone pop dovrebbe essere un’opera d’intrattenimento, una composizione nata nell’immediato che non diminuisce la propria genuina naturalezza nel tempo prossimo/lontano e che conserva l’ispirazione musicale da cui è stata tratta, senza rischiare di perdersi in accuratezze inutili, perfezionismi snob o regole dettate dalla moda. In questo il minimalismo ‘pop’ si rivela perfetto, andando a segno sia in chiave strutturale che in senso figurato, riuscendo a risultare popolare e innovativo allo stesso tempo, premiando lo stato di grazia compositivo e cercando, allo stesso tempo, d’introdurre nuovi linguaggi.
Oltre alla musica, sei anche ideatore della pagina ironica “Meme o non meme” e autore di libri umoristici. Come riesci a bilanciare queste diverse attività creative?
Le parole sono già musica con tanto di accenti, battute e cadenze, quindi mi viene naturale riuscire a fare con naturalezza entrambe le cose, anche perché le amo moltissimo. E’ per questo che musica e scrittura nel mio caso sono sempre andate d’accordo, perché traggono continuamente fervore l’una dall’altra (non per niente “Due acca hho” è un disco piuttosto ironico nei testi). Altra cosa è il tempo materiale di tutti i giorni per riuscire a portare a termine entrambe le passioni, tempo che invece, purtroppo, non basta mai.
Quali sono i tuoi progetti futuri, sia come musicista che in altre forme artistiche?
Dal punto di vista musicale, oltre a continuare a promuovere il disco (spero anche dal vivo), suono la batteria da qualche mese con un nuovo gruppo punk che si chiama EST? (punto interrogativo incluso ed essenziale). Riguardo la scrittura, uscirà in autunno il quarto libro dal titolo “I Punkinari” – edito da Nepturanus di Firenze – in collaborazione con Massimiliano Zatini (disegnatore per passione nonché bassista degli Stolen Apple).
Foto Articolo e Copertina: Alessandro Pagani