Definirlo precursore forse potrebbe offendere la sua così smerigliata personalità. Il nuovo libro di Giovanni Lindo Ferretti una sorta di autobiografia che interessa vissuti personali con l’analisi di un periodo storico la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80.
”Reduce” è il libro che Ferretti scrive abbracciando diversi credi in un ordine casuale. Questo ha permesso, forse involontariamente, di conoscere quello che l’uomo chiama “Credo”. Capire cos’è un “Credo”.
Il libro definito da molti come autobiografico. Intreccia momenti fondamentali della vita del protagonista. L’Emilia, i ricordi d’infanzia con l’esperienza di un bambino di periferia, la Nonna, indimenticabile punto di riferimento della vita di Ferretti. Le donne nella filosofia dell’Autore svolgono un ruolo fondamentale nella società. A loro spetta il compito di creare, mentre agli uomini quello di distruggere.
Importante il periodo berlinese dove alcuni giovani ragazzi italiani si incontrano in una Berlino di fine anni ’70 blindata dal comunismo ed iniziano un percorso creativo che prenderà il nome di C.C.C.P come un tributo al comunismo.
Giovanni Lindo Ferretti ha rivoluzionato il concetto di punk-rock italiano. Importando uno stile e sagomandolo alla cultura italiana. E’ stato e forse lo è ancora il “mentore” di migliaia di giovani che seguivano questo “Leader”.
L’Autore appare provato e stanco. In questo percorso che cerca di sintetizzare una vita alla ricerca di qualcosa, forse della serenità. Una nuova prospettiva sembra essere abbracciata l’idea del Neocon (Neoconservatori. Non sono conservatori e neppure rivoluzionari. Non sono un partito ma contano come se lo fossero. Per qualcuno sono i nuovi padroni del mondo).
Molti suoi fans a causa dei diversi cambi di “Credo” lo hanno abbandonato ma fra le sue file restano sempre i “Fedeli alla linea”. Tanti gli ammiratori di una figura decisamente carismatica e in continua riflessione con il resto dell’ambiente intorno a se.
Reduce di Giovanni Lindo
Reduce di Giovanni Lindo Ferretti: la positività della disillusione
(di Elisabetta Brizio)
Le cose cambiano – “dove il passato non è remoto il futuro svela tratti d’anteriore” si legge – a proposito dell’accadere del tempo, del suo succedersi in noi – nel bellissimo manifesto relativo al tour di Giovanni Lindo Ferretti o, se preferiamo, Ferretti Lindo Giovanni, come egli è solito firmarsi nei suoi autografi (forse perché, come diceva Proust, le cose vanno spesso lette a rovescio e decifrate con estrema fatica?), dello scorso anno. E a pagina 11 di Reduce figurano le parole, emblematiche a riguardo, di un suo famoso testo: “le cose cambiano ecco com’è / quello che c’era adesso non c’è”. E potremmo aggiungere, inversamente, quello che c’è adesso non c’era prima, o almeno non riuscivamo ancora a percepirlo distintamente. Siamo in continuo svolgimento, differenze che si svelano nella durata del tempo. Chi di noi non ha sperimentato, con il passare degli anni, di essere in divenire, soggetti a continui mutamenti, trasformazioni e ripensamenti? Siamo esseri fluttuanti, l’immobilità interiore non inerisce all’uomo. Scriveva Fernando Pessoa: “Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta.” (Il libro dell’Inquietudine di Bernardo Soares, tr. it. Feltrinelli, Milano 1986, p. 72).
Molto più lapidariamente Dino Campana, nei Canti Orfici, parlava del sé trascorso come “colui che io ero stato” (in La Notte, 3) e ne parlava, ovviamente, in terza persona. Cambiamenti, mutazioni, talora stravolgimenti non sono presagi di incoerenza quanto piuttosto di autenticità, segno del raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé, del vivere e del sentire.
Potremmo adattare a questo discorso una memorabile frase di Walter Benjamin: “la reliquia deriva dal cadavere, il ‘ricordo’ dall’esperienza defunta, che si definisce, eufemisticamente, ‘esperienza vissuta’” (Parco Centrale, in Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1962, p. 140; laddove “ricordo” traduce “oggetto-ricordo”, come scritto in nota).
Ma l’esperienza più vera di Giovanni Lindo Ferretti appare non defunta. Defunto, se mai, è un certo passato legato a ideologie – poi svelatesi ingannevoli, mistificatorie – che lo facevano atteggiare ad ateo e comunista, falsificazioni alle quali egli non è più in grado di adeguarsi. “Solo dopo i trenta avvenne che, non contento di me tornai a casa” (Palpitazione tenue): in seguito alla dissoluzione dei loro presupposti, alla labilità della funzione che tali ideologie avevano esercitato prima. Alcune profonde riflessioni sul tempo – pur nella loro ricercata forma aforistica -, figurano alle pagine 23-24: sul tempo del dolore, della gioia, della storia, dell’attualità, del “divenire personale e storico”, del futuro, il quale non è del tutto inavvenuto e già si intravede nel presente, e in parte è già vissuto. “Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi / se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi”, dice Franco Battiato (ma il testo è di Manlio Sgalambro) in Il cammino interminabile.
Reduce è un libro sul ritorno, che si configura qui come ritorno a casa (“in regressione genetica tornavo a casa”, p. 15), e sulla portata delle sue conseguenze, a un tempo liberatorie e rivelatrici. Ritorno come progresso, ripresa, un avanzamento, un tentativo di colmare una incompiutezza, non come rovesciamento o opposizione radicale nei confronti del passato. Ritorno come profilarsi di una differenza nella continuità:
Reduce da cotanto immane sforzo,
confuso e stanco,
di troppe cose già a noia
e d’altre che rifuggono il conto,
mi fermo, a rimirar il cammino e d’intorno. (p. 15)
Pertanto il ritorno a casa diventa anche l’occasione per una riflessione o tale riflessione è stata indotta dal ritorno a casa. Sembra tautologico ma non lo è: le due circostanze paiono piuttosto intrecciarsi. L’occasione del ritorno suscita una riattualizzazione del passato capace di rinvenirvi qualcosa di disoccultante, una speranza suprema che sottragga l’individuo all’idea della caducità della sua esistenza finita o perlomeno a quella – altrettanto oppressiva – del suo aggirarsi nei confini di un estremamente limitato orizzonte (vedi nebbia pascoliana, muro montaliano…). Il compimento del viaggio di ritorno rappresenta comunque il vertice di una evoluzione.
Un ritorno in termini di positività – “Ritornerò con voi” aveva scritto il padre di Ferretti, partito in guerra – poi “d’improvviso appena morto” (p. 17) – nella foto sbiadita e sciupata che compare nelle prime pagine del libro. Di quelle foto stinte dove gli sguardi lontani, sognanti e senza desideri delle persone che non ci sono più parrebbero ora contenere quasi la previsione di un triste destino.
Reduce costituisce uno dei rari casi in cui all’idea del ritorno non si associa quella di un inevitabile fallimento o la scoperta di un vuoto ormai incolmabile. Non perviene ad alcuna nichilistica conclusione (ricordate le parole, dalla risonanza cosmica, del pascoliano Odisseo: “Non essere mai! Non essere mai! Più nulla / ma meno morte, che non essere più!”?), né il ritorno è impiegato, come in tanta poesia crepuscolare, a ennesima oggettivazione di un’assenza, ad alternativa all’attuale inaridimento, o come tentativo di costituirlo a rifugio dell’anima in un vagheggiamento indefinito. Quella di Ferretti è una rivisitazione che non ambisce a fissare sé stesso fuori dal tempo, a inabissarsi nell’oblio di un luogo destituito di memoria, o che si riduce a un disilluso constatare che indietro non si può tornare e che l’esistenza consiste in un andare irrevocabile verso il nulla. Ferretti non “va incontro alla morte” (parole sue, in Cavalli e cavalle) come fa consapevolmente ‘Ndria Cambrìa in Horcynus Orca, il cui viaggio di ritorno prende sempre più l’aspetto di un percorso verso la dannazione che lo spinge, dopo un interminabile delirio, a cercare la morte come una sorta di rivolta (perché? Tornare alla madre equivale ad andare verso la morte? O è la verità stessa che muore?). E neppure come il protagonista di Il male oscuro, al quale non resta che rifugiarsi nel paese dei racconti paterni, finire i suoi anni nell’emarginazione, bruciare i suoi scritti e le foto che raffigurano suo padre morto, e prepararsi, a sua volta, a morire: “e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo”. Tanto per fare alcuni esempi – ma l’esemplificazione potrebbe essere lunghissima – dove il motivo letterario del ritorno si accompagna alla prefigurazione o alla cognizione di tutta la vacuità dell’esistenza.
Al contrario, Ferretti sente la necessità, pur nella disillusione di uno che ha già superato da tempo l’età del disincanto – quella che chiamiamo la domenica della vita – di un approfondimento di sé, di una riconciliazione e di un non ulteriormente differibile porsi la domanda essenziale: quali sono veramente gli aspetti del mondo che vale la pena ascoltare? Per questo si mette in cammino, in questo mondo. E il viaggio – come lo intende Ferretti – si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, un lento soffermarsi, indugiare, riflettere sulle presunte ovvietà, “perder tempo per trovare altro” (p. 49), “appartenersi, meditare”, direbbe Guido Gustavo Gozzano, e non un procedere direttamente, con lo sguardo distratto, verso la destinazione. Anche le persone che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi, suscitano intimità o estraneità, anch’esse sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri” (p. 59).
Egli scrive: “Arriva il tempo della verifica, arriva come necessità, d’urgenza. (…). Perdersi e ritrovarsi per tornare poi ai soliti passi, più coscienti, a volte più complessi a volte semplici.” (p. 45). Se il motivo del ritorno è suffragato da un’idea di positività, la reiterata parola “gioia” intesa nel suo significato più profondo, come felicità dello spirito, ne costituisce il mot-clé.
Il tempo del ritorno. Circolarità ed eternità – Dopo la descrizione di un certo disagio misto di perplessità per lo scarto tra ciò che ci si aspetta e ciò che realmente si trova Ferretti non si sente vacillare per il presentimento dell’irrevocabilità del passato, né si lascia sopraffare dalla primitiva e deludente impressione, ma la attraversa e ci indica cosa ricerca: “l’azione del cuore è il pulsare, l’azione della verità è lo splendere / illuminare. E’ ciò che cerco.” (p. 107). Il suo è un progetto di ritorno che assomiglia a qualcosa di predestinante. L’idea assimilata del sacro, della trascendenza divina – vissuta, più che dogmaticamente, come sentimento di perennità, come percezione della dilatazione del tempo (“contemplando i millenni”, p. 25) -, restituisce un senso alle cose e contemporaneamente costituisce una chiarificazione di quello che appare come invariabile, “il residuale, ciò che permane” (p. 115), la creazione, Dio, il cui giudizio “è altra cosa” (p. 81), non paragonabile alle alterne democrazie della storia. Il motivo iniziale del ritorno a casa si precisa allora soprattutto come ritorno al Cristianesimo cattolico, che ha molto a che fare con le nostre origini. Il viandante-perdente – parola, quest’ultima, che è positivamente connotata: i perdenti, per Ferretti, sembrerebbero possedere una umanità superiore, in quanto “più adatti ai mutamenti” (In viaggio) – cerca una continuità nel tempo, qui definita in termini di circolarità (e una visione circolare del tempo allude alla dimensione dell’eterno), qualcosa che permane sulle cose che cambiano: “grave lento cammino su ieri e domani cammina davanti a me fiorendo il mio giorno. Oggi.” (p. 85). Tenendo sempre presente l’importanza fondamentale del dono della vita, verso la quale Ferretti mostra un’adorazione incondizionata (e da lui infinitamente ribadita durante i suoi concerti): “contento di vivere, dono sorprendente in alto in largo in basso e nel profondo” (p. 91).
Ritorno dunque come unica via rimasta per riafferrare il senso della propria esistenza: “Io sono tornato a casa e faccio gli stessi passi che faceva mio padre, mio nonno” (p. 37). E come a suggellare tale situazione, Ferretti pone uno dei suoi versi memorabili: “memorie e passi d’altri che io calpesto” (p. 110), tratti da Inquieto. Tornare “lì dove tutto è cominciato. Lì dove tocca tornare” (p. 102) se deve avvenire la redenzione (sarà un caso che nei termini “reduce” e “redenzione” le prime tre lettere coincidono?), la catarsi dagli errori e dagli inganni a lungo, inevitabilmente, inseguiti. Ritrarsi e ripartire dalle origini per tentare una spiegazione del nostro io attuale, un po’ confuso, un po’ smarrito, comunque sopravvissuto, in una ricerca che può essere solo interiore e solitaria, in un isolamento provvisorio, revocabile. Sulla positività della solitudine Ferretti scrive parole che costituiscono anche un avvertimento rivolto alle giovani generazioni: “è la solitudine che apre a vari regni della creazione (…). La solitudine è una ricchezza capace di arginare, crescendo, sia la noia che la logica del branco. Da lì s’ascende e si precipita e ci s’allarga intorno.” (p. 44).
E l’affermazione “sono figlio di un mondo irrimediabilmente vinto” (p. 116) non contiene alcuna intenzione o allusione nichilistica o alcun senso di sconfitta personale. Egli ha infine trovato per sé la via della salvezza: nel divino che permea di sé il quotidiano, nel “sapere arcaico” (p. 39) che ancora permane. Tradisce, al contrario, l’intuizione – pur pessimistica – di tutta la decadenza dell’Occidente – “luogo da cui non giunge suono / luogo perduto ormai” (Occidente) – e della sua corsa dissennata verso il declino, ci indica la dimensione collettiva della tragedia. “E’ stato un tempo il mondo giovane e forte”, diceva Ferretti in Del mondo, parole – piene di una mortale nostalgia – che ribadisce in Reduce.
Ferretti ripercorre la vita passata dal punto di vista di una serenità raggiunta nell’appagamento della propria aspirazione alla gioia; il suo appare uno sguardo retrospettivo da una distanza diversa, quella del reduce che ha assistito all’estinguersi dei contrasti e riconquistato la pace dello spirito nella percezione dell’unità tra terreno e ultraterreno, un dualismo non più vissuto come scissione, quanto come una forma di ascetismo, ma da professare nel mondo: “m’inchino solo a Dio, alla vita sempre definibile mai definita” (p. 116). E conclude con un augurio a coloro che sono sulla strada alla ricerca dell’essenziale della vita: “Possano i viandanti trovare serenità ovunque e realizzare i loro scopi / e arrivati sani e salvi alla meta ricongiungersi con gioia ai loro familiari” (p. 118).
Uno stile sostanziale – Leggiamo alcuni versi tratti da un vecchio testo di Ferretti (Esco, appartenente a Linea Gotica), tanto per tenere presente la sua maniera peculiare e sontuosa di trattare il materiale verbale, straniandolo e sbloccandolo dal suo assetto costituito:
qui la luce si ritrae e l’aria è satura dall’eco di lamenti
scorteccio le parole
aride schegge secche adatte al fuoco
è l’instabilità che ci fa saldi ormai
negli sgretolamenti quotidiani
Sulla parola Ferretti scrive: “è la parola che rende necessario e prezioso il silenzio. La parola si nutre di studio contemplazione ascolto e deve essere coraggiosa, pregna.” (p. 108). E, più avanti (p. 116), la parola viene vista come “un rapimento, un’estasi che brucia e fa silenzio intorno.” La parola di Ferretti, come da sempre ci ha abituati, è densa, immensa, sovraccarica di significati, viene costretta a un’ampia dilatazione semantica e il suo legame con il referente è insieme rispettato e infranto: “è un’arma la parola, un’arma il tono, il ritmo. Forma e sostanza preziosa” (p. 116), e, aggiungiamo, sostanza rivelatoria. Spesso viene isolata attraverso una sospensione, creando il “silenzio intorno”, che costituisce insieme una zona di incertezza e di attesa di significazione (“trascendente orizzonte”, p. 45; “alterità assoluta e infinita distanza”, p. 48), lasciando al lettore la possibilità di cogliere tutta l’amplificazione, il prolungarsi della parola e il suo travalicare il significato ordinario e convenuto. Da una simile assenza di noncuranza, sul piano stilistico, potrebbe trasparire un rifiuto – non aristocratico, né estetizzante – della mediocrità dei nostri “tempi scadenti” (p. 113). Quella di Ferretti è una voce originaria, accurata, multiforme, che designa, allude, devasta e rigenera, le cui insistenti cadenze sono inconfondibili. Di una tale intensità spesso quasi insostenibile.
Lo stile di Reduce stabilisce un linguaggio altro. E’ personalissimo: rarissime sono le citazioni di Ferretti – fatta eccezione per qualche preghiera e per le parole tratte da precedenti testi suoi – e se compaiono, come nel caso di “maestrale sotto cui biancheggia il mare” (p. 61), costituiscono piuttosto echi che fanno ormai parte della nostra memoria. Quello di Reduce è uno stile essenziale, nel senso che è uno stile di essenza. Metafisico il suo spessore perché l’obiettivo dell’autore è quello di accedere allo strato più profondo della realtà in una contemplazione intemporale e assoluta – vale a dire libera da limiti e da legami – della vita e della storia: “lo sforzo di penetrare la realtà, rivelandola, è poesia” (p. 117). Molto spesso le parole sono accostate per asindeto (“spazza spezza spinge”, p. 63; “misero ingombrante ridicolo feticcio”, p. 64; “azzera memoria religione storia”, p. 69). Ferretti travolge la punteggiatura adattandola al suo percorso liberatorio; è uno stilema di Ferretti, scrittore e cantore, e concorre alla creazione di quel suo stile peculiare, che è un eccedere, passare i limiti, con stile. Le ricorrenti elencazioni o accumulazioni hanno una risonanza sia musicale che semantica. Semantica perché l’autore vuole scrivere tutta la stratificazione del tempo che grava sia sulla storia dell’uomo sia sull’idea del sacro in cui tempo ed eternità si dissolvono, l’uno nell’altra, indifferenziati. E l’iterazione quasi ossessiva delle parole “generazione su generazione” non fa che confermare questa impressione del lettore. La sua dimensione sta nell’ossimoro “un oggi eterno” (p. 77).
Una prosa poetica, un lirismo a tratti profetico a tratti concettuale scandiscono le vicende personali e metapersonali o storiche descritte in Reduce. Le parole sono spessissimo imprevedibilmente rimate tra loro, anche a distanza. Frequentissima – il testo ne è disseminato – è la rima martellante interna, incessantemente iterata (“bianca e nera austera in secentesca maniera”, p. 110; “Il futuro è sicuro. Un poco postumo, un poco prematuro”, p. 24; “Il nodo si snoda riannoda”, p. 116): una complessa trama di rime e quasi-rime, di accordi insistiti e fuggitivi, di riprese, attraverso la quale si cerca di dare wesen al casuale, liberandolo dalla latenza. La rima, si sa, non risponde unicamente a una esigenza di musicalità testuale e quello di Ferretti non parrebbe un uso esclusivamente edonistico della rima che si limiti a costruire una modulazione di suoni. Gli accostamenti rimati istituiscono piuttosto nuove presenze, sono invenzioni o intuizioni – talora iperboliche, vertiginose (come quella dal tono fin troppo gozzaniano “putrescente-seducente”, p.113) – di inattese e infinite connessioni tra le cose, di consonanze sconosciute. Qui le rime appaiono medianiche, analogiche, indagatrici dell’anima. L’avventura della rima esemplifica il viaggio di ritorno di Ferretti; attraverso la rima e il potenziale semantico della parola affiora il mondo sommerso della sua soggettività, si delinea una nuova zona dell’anima e attraverso il proprio stile egli sembrerebbe chiarificarsi e perdere ogni residuo snaturamento di sé. Un effetto dell’arte.
Incoerenza come prospettivismo – Non capisco il senso né l’utilità delle caustiche e irrisorie osservazioni di alcuni lettori – probabilmente troppo frettolosi – sulla natura della religiosità di Giovanni Lindo Ferretti e sulle sue presunte contraddizioni. E’ fastidiosissimo assistere alla enunciazione di giudizi di valore che hanno per oggetto le emozioni altrui. Inoltre mi sembra un evidente segno di presunzione ergersi a difensori o a cultori di una vaga e quanto mai inafferrabile coerenza, atteggiarsi a moralizzatori delle coscienze in nome di una conformità astrattamente invocata ed esibita – ma quanto, nei fatti, praticata? – come se fosse una virtù anziché un appiattimento intellettuale e spirituale. Quella di Ferretti vuole essere solo una poetica confessione della propria devozione, non mi pare nelle sue intenzioni l’idea di evangelizzare la gente (“la verità deve fiorire dentro”, p. 70). Allora, per quale motivo infierire? Personalmente, da atea non confessa, meglio, da atea che rifugge l’idea di ateismo come un’anomalia, una rovina, non condivido la sua posizione, non nel senso che la trovo inadeguata o incompatibile con i suoi trascorsi di “ex combattente”, ma solo nel senso che non riesco ad avvertire quella sua stessa stretta vicinanza con il divino. Malgrado ciò non riesco a rinvenire nel percorso di Feretti contraddizione alcuna. Ma una risposta più che esaustiva ce la dà egli stesso, in Barbaro: “ognuno sia Conforme a sé / giudica il Creatore giudica Me e Te”.
A qualcuno il convergere – o il sovrapporsi – del motivo del ritorno a casa con il ritorno al cristianesimo è parso un tratto fastidioso del libro, tale da comprometterne la leggibilità o la dignità. Ad alcuni addirittura è parsa una occasione per Ferretti “per poter manovrare dall’alto i media con la sua capacità dialettica e culturale” (Alex, in ibs.it internet bookshop, 15/11/2006)… E i media, poi, cosa ci guadagnerebbero con la sua poetica autobiografia? A che serve rimarcare che egli è un ex comunista ora divenuto teocon o neocon o che altro mai? Forse la fedeltà al comunismo sarebbe stata sinonimo di buon senso? O, ancora, di coerenza? Il mutamento, nella vita di ognuno, è il luogo in cui insorgono l’intelligenza e la sensibilità dell’individuo che si accorge delle mutazioni che avvengono in sé e fuori di sé. Ce lo hanno insegnato i più grandi poeti, le circostanze della nostra vita e se questa si chiama incoerenza tanto vale attribuire a Ferretti la versione che ne dà Walt Whitman in Song of Myself: “Mi contraddico? (…) Io sono vasto… contengo moltitudini.” Così è – e chi potrebbe affermare il contrario? – Giovanni Lindo Ferretti.
Siamo casi difficili – Piuttosto che parlare insensatamente di incoerenza converrebbe seguire il discorso – intriso di un attento scetticismo e insieme di un grande abbandono sentimentale – sull’odierno uomo totale che “ha dichiarato guerra all’Infinito, l’Indefinibile” (p. 94), promotore di quello che Ferretti chiama ”scientismo tecnologico genetico” (p. 37) – carattere o formula della post modernità, l’età a venire – e sui rischi delle incontrollabili conseguenze di un così impetuosamente dilagante fenomeno nel mondo contemporaneo (qui sottoposto a una specie di blow-up nel capitolo “I pensieri del mar Morto” ma già annunciato in Casi difficili). Ferretti ci avverte della inautenticità – vissuta in maniera spesso allegra e inconsapevole – della nostra vita e ci indica tutta l’artificiosità dei tempi inumani ai quali ci stiamo adeguando con scarsissimo senso critico (“chiamarlo Paradiso e crederci”, ci ricorda in Casi difficili), come narcotizzati. L’incubo ci viene proposto “in forma di sogno” (p. 95), la parola “buono” si trasforma in sinonimo di totalitario, il laboratorio genetico confonde le generazioni, il non luogo è diventato il nostro luogo privilegiato. L’impegno dell’uomo totale, sorretto da una troppo disinvolta e illogica hýbris, approda a una “negazione della realtà” (p. 97) mentre crede di lavorare per migliorare la vita. Ma a cosa si è ridotta la vita? “Nascere, non è caso ideologico medico etico / e antecedente all’idea di diritto divina conseguenza / d’amore”, egli dice, ancora in Casi difficili.
Ferretti non è un moralista, ma un outsider “umano, troppo umano”, preveggente e dalla mente lucidissima, non offuscata da alcuna crisi mistica. A rigore potrebbe essere definito un immoralista che anela al persistere della verità, laddove una moralità qualitativamente eventuale finirebbe per autodistruggersi. Ma prima di tutto, naturaliter, è un grande artista: geniale, singolare, unico. La cui arte può aver origine da quel “Muro dentro eretto dagli Dei”… (Barbaro).
L’autore di Reduce è lo stesso di Intimisto. Più drammaticamente profonda sembrerebbe la versione che compare in Litania, per una maggiore partecipazione emotiva di Ferretti cantore, per la sottolineatura espressiva della seconda voce. Il testo è comunque identico: un autentico capolavoro. In Intimisto l’uso emotivo della parola ha esiti più lineari e la forma dell’espressione pare uniformarsi all’immediatezza dell’ispirazione. Vale veramente la pena riascoltarlo, ogni tanto, meglio se in solitudine, quando si avverte quella indifferibile necessità di allontanare pensieri meschini adombrati di risentimento e di stare in stretto contatto con parole e voci intensissime: un’esperienza spirituale davvero molto profonda. Rileggiamolo, ricordando queste parole di Friedrich Nietzsche: “sino a quale profondità possano soffrire gli uomini è un fatto che quasi determina la gerarchia” (in Al di là del bene e del male, af. 270):
Mi rubi il tempo mi rubi l’energia
non ascolti il lamento non ascolti il richiamo
incrini il mio coraggio vanifichi l’attesa
le sere che ti aspetto
e i pomeriggi che aspettano la sera
mi rubi la mattina che mi sveglio da solo
e non sta bene
distruggi le mie felicità
perché sono da poco agli occhi tuoi
qualcuna la riempi la gonfi a dismisura
e io devo lasciarla che stava bene silenziosa e sola
e gli occhi tuoi mi rubano la luce
perché tu possa splendere nei miei
allora non rimane niente e te ne vai
consuma spento e lento il mio dolore. Consuma me.
brava, elisabetta, condivido
brava, elisabetta, condivido pienamente il tuo commento; hai fatto bene a offermarti sullo stile di ferretti, davvero inimitabile!
Per quel che riguarda le sue presunte contraddizioni , è come da egli stesso affermato (e da te sottolineato) “ognuno sia conforme a sè”.
Ciao Elisabbetta, ho letto
Ciao Elisabbetta, ho letto con attenzione quello che ha scritto e non ho potuto fare a meno di notare la tua attenzione alla figura di Giovanni Lindo Ferretti che per molti è stato come una sorta di guida spirituale per altri un "folle" anarchico.
Ritengo che chi segua Ferretti abbia deciso di intraprendere un percorso di vita dove il lato spirituale assume un ruolo principale. Complimenti per il commento così analitico e attento ad un persoanggio che mi ha sempre affascinato e che ho incontrato qualche tempo fa.
Ecco l’intervista Lindo Ferretti. Mi farrebbe piacere avere il commento di una persona che lo segue con attenzione.
Io ascoltavo Ferretti sia
Io ascoltavo Ferretti sia nei CCCP (ero piccina picciò) e nei CSI, ricordo anche un loro concerto (anno 1999, Ferretti è apparso sul palco bendato, vestito alla Nosferatu ma non so se l’ho sognato)
Comunque non sono mai stata fedele alla linea di nessuno, tanto meno musicalmente. Credo nella libertà di pensiero e nella libertà di cuore e non capisco perchè bisogna attaccare una persona per le sue scelte o per le sue non scelte o per l’essersi fatto scegliere. Io non sono credente ma ammetto anche che Dio l’ho sempre cercato quindi sono felice per lui e per tutte le persone che hanno la gioia della fede. Perchè la gioia dà così fastidio? E poi a me non sembra che abbia fatto una “svolta”, sarò disattenta forse, non ho seguito bene il suo percorso (penso a mio, troppo solipsistica vero?) ma mi sembrava evidente che nella sua vocalità appare possente la sua vocazione (pardon per il gioco di parole) alle vette e allo spirito.
“Bella Gente
“Bella Gente d’Appennino“ di Giovanni Lindo Ferretti: una lezione di autenticità
di Elisabetta Brizio
Ho avuto la fortuna di ascoltare Giovanni Lindo Ferretti per due sere consecutive, in “Bella Gente d’Appennino”, reading per voce e violino, e nel concerto “Reduce”, una sorta di continuazione e approfondimento, quest’ultimo, del tour dello scorso anno. Il 26 luglio a San Benedetto del Tronto, presso il Museo Pietraia dei Poeti, in uno sfondo atipico ma particolarmente emblematico per Ferretti (come egli stesso ha avuto occasione di sottolineare: mare alle spalle e montagne di fronte), la sua figura morale si ergeva – pur in assenza di palcoscenico – nella notte stellata e suggestiva delle colline sanbenedettesi, accompagnata dai magici accordi del violino di Ezio Bonicelli. Dopo aver ribadito nell’ormai noto testo – costruito su raffinatissime e iperboliche rime – che “le cose cambiano”, Ferretti si è esibito recitando brani tratti dal suo libro “Reduce” e soprattutto pezzi nuovi, ispirati a un appassionato rievocare quel mondo senza falsificazioni ormai scomparso, che egli definisce tardo medioevale – una età che ignorava ogni forma di impazienza o insofferenza nel controllo dei sentimenti e dei gesti – ora soppiantato dalla consuetudine alla fretta, dalla tendenza a rimuovere l’idea della morte (vedi la corsa affannosa nella sepoltura dei morti, quasi indicativa di un tentativo di cancellarne le tracce: le pratiche di rito si avvicendano e si accavallano senza rispetto alcuno, e storditi si diventa veramente consapevoli del fatto che il defunto non c’è più quando ormai è murato dietro una pietra. Chi di noi – in particolare se non sorretto da alcuna speranza ultraterrena – non ha sperimentato tale sensazione, dove anche la precipitosa e impersonale benedizione del prete dà la deludente impressione di rientrare nello spirito delle operazioni di routine?). Ferretti, tra parole e canto, ha insistito sulla necessità di ricercare il senso delle nostre origini, sulla spiritualità che tutto permea di sé, sulla insensata e abusata presunzione di onnipotenza che molto spesso finisce per orientare le azioni dell’uomo contemporaneo, ingannatore di se stesso, fingitore di felicità e certezze implausibili. Questa quasi ossessiva idealizzazione-idoleggiamento del passato, questo rifiuto di certi aspetti dell’attualità, l’indugio insistito sulla qualità scadente dei nostri tempi potrebbero tradire un disagio, da parte di Ferretti, nel vivere adeguatamente il presente? Non direi proprio. Si tratta piuttosto di non voler dimenticare quell’età che ancora mostrava un non generico rispetto per l’individuo e per l’unicità dell’esistenza, in una descrizione di gente “bella” perché soddisfatta nell’appagamento per sentimenti iniziali, per cose semplici e modeste – ma non banali, se ci si riflette – ed essenziali della vita, di voler riattualizzare una visione del mondo non ancora scissa o polare ma basata sull’unità e sulla calma, estranea alla conflittualità degli opposti; in altre parole, fondata sulla serenità dello spirito e sull’armonia con il tutto. L’uomo contemporaneo sta deviando verso l’adeguamento di sé a un mondo opaco, dove l’assuefazione al proprio lato d’ombra si configura quasi come la sua seconda natura. Nessun rifugio nel passato quindi, né nostalgia arcadica, ma un esplicito richiamo a riconoscere e a identificare l’attuale clima di decadenza, la perdita di un non precario punto di riferimento. Un invito forte e imperioso a non omologarci acriticamente ai ritmi, agli stili e alla persuasione dei tempi della “modernità”. Il giorno successivo, a Loro Piceno di Macerata (in occasione della XIV edizione di ESTEUROPAOVEST) Ferretti, come sempre molto ispirato e con il suo consueto atteggiamento – mai ostentatamente – riflessivo, ci ha riproposto i medesimi temi in forma diversa, accompagnato ancora dal violinista Ezio Bonicelli, dal fisarmonicista Raffaele Pinelli e dagli intensissimi virtuosismi vocali di Lorenzo Esposito Fornasari. Una autentica magnificazione dello spirito per i suoi estimatori: dopo un esordio vocale Ferretti ci presenta “Le cose cambiano” (sarà poi l’esatto titolo di questo testo superbo?), “Del mondo”, “Cupe vampe”, “Ongii”, in una performance pressante e incalzante, culminata in “Intimisto” (a proposito del quale avevo parlato con Ferretti la sera precedente, chiedendogli come avesse fatto a scrivere un tale capolavoro. Dopo averci pensato su un attimo mi risponde: “talvolta le cose erompono da sole”. Sarà, ma solo quando c’è dietro una mente geniale e abissale come la sua, cresciuta insieme a quel “Muro dentro eretto dagli Dei”. Erompono dal dolore, da quell’attitudine alla sofferenza che, come diceva Nietzsche, non può che generare un differente valore tra gli individui e che veicola a una conoscenza radicale superiore) e molto altro ancora fino a “Barbaro”, nel quale Ferretti sembrerebbe rispondere con un vecchio testo a eventuali e fastidiosissime disapprovazioni nei confronti del suo personale mutamento nel divenire del tempo, ma soprattutto delinea quello che è il proprio modo di essere al mondo: “come gli Avi miei, nei silenzi del Nord…”. Dopo aver recitato un pezzo magistrale sulle mutazioni del paesaggio Ferretti si congeda con un “Te Deum” e, se non ricordo male, con “And the radio plays”. C’era un tizio vicino a me che per tutto il concerto non ha fatto che ripetere: “Spara Jurij”. Come provocazione o molto più presumibilmente come segno della sua incapacità di percepire la propria evoluzione personale. Ferretti dapprima sembra ignorarlo, ma alla fine risponde con la sua solita e non affettata cortesia: “ogni cosa a suo tempo”. Dicevo all’inizio: ho avuto la fortuna di partecipare a una vera e propria lezione di autenticità, a un evento in cui la parola, la sua strenua dilatazione e lo sfruttamento delle sue potenzialità evocative, la vocalità inimitabile dell’artista e la sua visione della vita convergevano e si fondevano in una inestricabile unità, laddove la pur ricercatissima componente strumentale pareva assecondare, sottolineare e conformarsi – attraverso uno sfarzoso e al tempo stesso deferente adattamento – alle intuizioni vòlte “in alto in basso in largo e nel profondo” di Ferretti Lindo Giovanni poeta, profeta, cantore e guida spirituale che imperiosamente ci indica tutta la vacuità e la disarmonia della nostra età sontuosamente nichilista.