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Francesco Bianconi lo incontriamo al telefono per raccontare questa avventura firmata Baustelle. La stampa specializzata li descrive come la rivelazione indie-rock del 2006.

In realtà, ci racconta Bianconi, il percorso è stato graduale: dapprima le registrazioni per etichette indipendenti, successivamente il salto su una major.

Francesco dimostra una personalità riflessiva e attenta alla realtà.

Chiediamo dove trovi etimologia il termine Baustelle. “In un dizionario di lingua tedesca,” risponde Bianconi. Il significato è “cantiere/in costruzione”.

Alcuni riferimenti ai loro ascolti: Mina, Gainsbourg e i maestri italiani degli anni ’60/’70.

Chiediamo quali sono le band italiane che considera con particolare attenzione. Bianconi afferma: “Afterhours, Marlene Kuntz, Morgan, Zoo…”

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Dalla nicchia al mercato di largo consumo. Come l’avete presa?

Bene. Noi non avevamo mai detto di volerci rivolgere ad una nicchia, perché è una cosa abbastanza snob. I Baustelle hanno cominciato a registrare ed essere prodotti, come spesso accade in Italia, da delle piccole etichette non perché volessero delle piccole etichette, ma perché non c’era modo di arrivare ad altro. Quando si è fatta avanti una etichetta più grossa noi abbiamo fatto le nostre richieste e ci siamo cautelati dal punto di vista dell’indipendenza artistica ma poi abbiamo accettato. Noi vogliamo arrivare al maggior numero possibile di persone.

Quindi esiste indipendenza artistica all’interno delle Major?

Beh, nel nostro caso esiste. Forse dipende dalle persone con cui ci si relaziona all’interno delle Major. Forse noi stiamo stati fortunati, ma abbiamo incontrato delle persone che hanno capito chi eravamo, che tipo di passato avevamo e che avevamo un certo tipo di pubblico, un background underground eccetera ect. e ci hanno promosso proponendoci anche ad un pubblico abitualmente non era preparato a noi, ma lo hanno fatto senza snaturarci. Magari ci sono casi che non sono così. Per quanto mi riguarda solo molto contento delle persone con cui lavoriamo.

“Malavita”, il vostro album, è una sorta di film retrò?

Un film si sicuro. Retrò non lo so. Io trovo che nell’ispirazione del disco ci sia un certo tipo di approccio passatista ma soprattutto a livello di citazione, nella ricerca di cere sonorità legate soprattutto agli anni 60 e 70, però lo definirei un disco abbastanza cinematografico.

Nelle vostre composizioni si ascolta sempre un connubio fra musica Rock ed orchestra come coniugate queste due situazioni?

Non è facile coniugare questi aspetti, ma ci si può riuscire ed ottenere ottimi risultati. Noi siamo sempre stati molto affascinati da una serie di riferimenti del passato che questi elementi li hanno uniti: ad esempio i compositori di musiche di film italiani degli anni 60, che oltre a quello facevano anche gli arrangiatori delle cosiddette “canzonette”. Se tu prendi una canzone di mina di metà degli anni ’60, ad esempio “Città Vuota”, scopri che ci sono sia le chitarre che un uso abbastanza massimalista dell’orchestra. Una volta si faceva molto comunemente e si ottenevano risultati abbastanza sperimentali. Oggi i dischi si fanno in un’ottica molto più digitale, da computer: sono cambiati gli strumenti, e questo non è che non vada bene. Ma noi cerchiamo anche altro, come ad esempio l’utilizzo dell’orchestra classica e di strumenti elettrici insieme.

Quanto la vostra musica ha subito le influenze di Serge Gainsbourg?

Beh, ci ha influenzato parecchio. Personalmente è una delle figure “pop” che preferisco e dei musicisti che stimo di più, insieme ai Beatles, ai Velvet Underground e pochi altri. Per figura “pop” intendo chi, come lui, è riuscito portare alla massa cose sperimentali facendole passare come se non o fossero. Questa per me è genialità in ambito pop. Come tutte le cose che si amano e si ascoltano tanto, più o meno consciamente rientrano tra le cose che scrivi.

Diverse le definizioni a voi attribuite: dandy moderni, cronaca nera, moda anni ’80… Come cambiano i Baustelle nel tempo?

Nonostante le new entries e gli abbandoni, secondo me i Baustelle rimangono la stessa cosa, ma che fa cose diverse. A me sembra di essere sempre lo stesso, con un po’ più di esperienza, ma il mio approccio alla creazione è sempre lo stesso: curioso, giocoso, mi piace sperimentare… e comincerò a preoccuparmi quando non sarà più così.

La parola Baustelle dove l’avete trovata?

Da un dizionario di tedesco che sfogliavamo a caso. La parola ci è sembrata figa perché pur essendo tedesca sembrava francese. Il significato in italiano è “cantiere”, “lavori in corso”. In Austria e Germania si vedono molto spesso per strada cartelli con scritto Baustelle.

Si può fare della buona musica senza cadere nella banalità imposta dai media?

Si può fare. Il fatto di stare sui media commerciali non è di per se un male. Personalmente non amo molto la programmazione canonica di gran parte dei network commerciali televisivi e radiofonici, ma questo non significa che non si debba starci. Se comincia ad esserci qualcuno che stimo ed apprezzo mi fa piacere. Io sono stato molto contento di andare a Festivalbar con una canzone come “la guerra è finita”, che parla di un suicidio perché sentivo che era una pecora nera all’interno di un grande gregge di pecore bianchissime.

Cosa pensate della scena italiana, quali i nomi che apprezzate?

Non so se esiste una scena italiana. Personalmente stimo molto Perturbazione, Afterhours, Morgan, gli Zoo, gli Ardecore, Federico Fiumani, Amerigo Verardi, Jennifer Gentle. Gli altri Baustelle hanno anche gusti diversi.

Il vostro spazio web?

www.baustelle.it e c’è anche una pagina su myspace su cui bazzico abitualmente perché mi diverte, ma l’indirizzo non me lo ricordo, ma basta fare una ricerca per “Baustelle”.

Ascolta intervista a Francesco Bianconi dei Baustelle.

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