I Japanese Gum sono Paolo Tortora e Davide Cedolin. Definiscono la musica elettronica come uno strumento per far vibrare le emozioni intorpidita dalla routine quotidiana. Questa la filosofia alla base della musica dei Japanese Gum che raccontano il nuovo lavoro.
Come inizia l’avventura nella musica dei Japanese Gum?
Davide: Arriviamo da diverse esperienze all’interno di band dalle coordinate canonicamente più “rock”. I Japanese Gum sono nati quando ci siamo ritrovati a dover ricominciare da capo un discorso musicale e abbiamo deciso di provare a lasciarci andare maggiormente, senza precludere alcuno strumento, alcuna “visione” sonora ed alcuna tecnica compositiva. Il risultato all’inizio si è concretizzato con lo sviluppo di brani prevalentemente elettronici/ambient. Avevamo deciso di mettere da parte le chitarre per un po’ almeno; sentivamo la necessità di esplorare altri territori sonori, e quindi anche per questioni di comodità, essendo che la composizione elettronica potendo essere fatta da casa, snellisce il lavoro di gruppo e ne accelera i tempi, la sala prova era divenuta il luogo dove arrangiare i pezzi quando erano già costruiti all’80%. Col passare del tempo, ci è venuto naturale e spontaneo inserire nuovamente strumenti “reali” e quindi di evolvere il suono in tal senso.
Paolo: Quello che ci ha portato a creare questo progetto è stata la necessità di esprimere la musica in una forma per noi nuova. La ricerca di nuovi linguaggi è stato il motore che ha fatto muovere gli ingranaggi. In questo contesto avevamo la libertà di sperimentare per noi nuove soluzioni come meglio credevamo. Ed è sempre stato l’elemento che più mi ha stimolato. Gli strumenti “veri” sono comparsi nelle nostre canzoni quando un nostro progetto parallelo più orientato al post-rock è terminato. Sentivamo quindi il bisogno di non perdere una parte cosi importante del nostro bagaglio musicale e di portare avanti anche certi aspetti del defunto gruppo. Inoltre dal vivo ci sentivamo più a nostro agio suonando le chitarre.
Il vostro nuovo lavoro, dal titolo provvisorio Molotov is easy, è stato anticipato dall’e.p. Without you I’m napping. Quali sono stati i punti di riferimento per questo lavoro?
Davide: Il disco full-lenght sarà intitolato, è definitivo, “Hey folks! Nevermind, we are all falling down!”, sulle sue tempistiche di uscita non voglio dire nulla, visto che oramai ha subito più ritardi che i treni italiani.
Durante la fase di mixaggio, sentivamo comunque la necessità di fissare nero su bianco idee nuove, e così la scorsa estate abbiamo dedicato parte del tempo passato in studio alla scrittura di nuovi pezzi, due dei quali sono contenuti nell’e.p. Parlare di punti di riferimento non mi rimane facile. Abbiamo vite ed ascolti differenti, che si incontrano solo in alcuni punti di convergenza. E’ proprio questo ciò che ci lega maggiormente come persone e conseguentemente come musicisti, l’eterogenia negli interessi e nelle abitudini di vita, che può essere vista come una sorta di schizofrenia forse, ma che ci permette di essere costantemente stimolati da diverse cose. Mi vengono in mente i viaggi in macchina per raggiungere i locali prima di un concerto, dove passiamo senza battere ciglio dall’ascolto di un disco di Skream ad uno dei Cure, dagli Altro a Lady Sovereign, dai Fuck Buttons agli Slint.
Paolo: Il disco non è altro che un’evoluzione di Talking Silently. Il primo era più ambient, ed in qualche modo più casalingo. La maggior parte dei pezzi era stata composta e registrata a casa, mentre quello nuovo ha richiesto un lavoro maggiore. Un lavoro meno isolato e più costruito insieme. La collaborazione diretta nello studio di registrazione ha trasformato certe composizioni in modo del tutto inaspettato. I punti di riferimento, al contrario di come tanti sono portati a pensare, non sono Port Royal, nome che rispettiamo sia musicalmente che umanamente, ma purtroppo viene talvolta associato a noi con troppa leggerezza senza magari una attenta reale analisi degli intenti espressivi che a nostro parere sono differenti.
Piuttosto ascoltiamo cose molto differenti: mi vengono in mente gruppi come Fiery Furnaces, Matt Elliott, Panda Bear, Espers, Scorn e molti, veramente molti altri.
E’ un disco di musica elettronica che mira alle emozioni?
Davide: Preferisco dire che è un disco di musica che mira a suscitare emozioni… Credo che odiernamente il 95% della musica paghi dazio all’elettronica, se non altro in fase di registrazione. Lavorare in analogico richiede costi e materiali che purtroppo (o per fortuna) non sono alla portata di tutti. Quindi all’interno dei nostri lavori l’elettronica c’è indubbiamente, sopratutto nella parte ritmica, ma non credo che noi in quanto band possiamo definirci tipicamente di musica elettronica.
Paolo: Non mi sento di appartenere alla musica elettronica. L’elettronica è per noi uno strumento, un mezzo compositivo, non un fine dal punto di vista del suono. Per quando riguarda l’emozione, direi che su di essa nascono le nostre composizioni. Non potrei mai pensare di comporre senza trasmettere la mia emotività. E’ un lato troppo importante della musica.
Cosa intendete quando affermate: «Un disco che mira a destare l’anima dell’ascoltatore intorpidita dalla routine quotidiana». Quali sono per voi le routine?
Davide: Anche se non sono di nostra elaborazione, almeno personalmente, mi ritrovo in quelle parole, nel senso che per me quando si fa qualcosa di creativo/artistico è fondamentale tentare con tutte le forze di cercare di realizzare un qualcosa che possa smuovere in qualche modo le corde emozionali il fruitore. Piuttosto anche in senso negativo. Non faccio parte della schiera di quelli che definiscono gli artisti/musicisti come persone che hanno il compito di migliorare il mondo o di innalzare le coscienze o altre paraculate filo-spirituali, ma credo che sia importante che se si fa qualcosa, questo qualcosa serva ad aggiungere per lo meno un elemento all’insieme di tutte le espressioni artistiche. Sennò ci si ritrova a dire: “Caruccio questo disco, ma anche se non fosse uscito, non sarebbe cambiato nulla”.In questo senso si, credo che una persona che suona debba avere questa di responsabilità,il costruire qualcosa che non sia dettato nè dal caso nè dalla facilità che oggi si ha nel fare musica. La routine è quella cosa che a volte fa comodo, ma ti consuma e ti invecchia dieci volte più velocemente rispetto al naturale corso delle cose.
Paolo: Prima di tutto direi che ogni forma d’arte, ogni forma di creatività personale o collettiva va contro la routine, ossia contro tutti quei binari in cui siamo costretti a viaggiare. Al giorno d’oggi è cosi difficile trasmettere la propria individualità autentica espressiva (non quella legata all’individualismo che si origina dall’ego) che risulta fin troppo imprigionata.
Dove è stato pensato questo lavoro?
Davide: Penso che ci sia una sorta di “non luogo” immaginifico dove accade che un umore o uno stato d’animo si fissino per un po’ di tempo in più rispetto al normale… quando questo avviene e sono nella condizione mentale sufficientemente attiva di capirlo, prendo la chitarra e butto giù dei giri, accendo il computer e lavoro ad una ritmica, oppure prendo la penna e scrivo delle parole… solitamente succede a casa, ma per esempio la fase di editing delle ritmiche di “Chlorine Blue” l’ho svolto per la maggiore in treno col portatile e le cuffie.
Paolo: Questo lavoro non è stato concepito né in un giorno né in un posto in particolare. E’ solo un insieme di idee che abbiamo interiorizzato nel periodo di tempo in cui non stavamo componendo. Quando hai tutto dentro, poi hai solo da metterlo su traccia. Direi che il lavoro più grande è stato quello dell’editing piuttosto che quello del concepimento. Temporalmente “Part-Time Assholes” invece è piuttosto vecchia come composizione. Addirittura forse risalente a oltre due anni fa. Quindi si rifà più alle cose passate, mentre le altre due appartengono più alla nostra concezione di musica che abbiamo ora.
I vostri ascolti sono mirati verso quale tipo di musica elettronica?
Davide: Come ti dicevo prima appunto, ascoltiamo un po’ di tutto. Ultimamente in ambito elettronico ascolto parecchia dub-step e grime. In generale adoro le prime uscite Warp e hip-hop sghembo tipo Cannibal Ox e Dalek, power electronics tipo Wolf Eyes e Yellow Swans, suoni rarefatti come Tim Hecker e Ben Frost.
Paolo: Direi che per me le parole d’ordine in questo periodo, in termini di ascolti, sono freak, folk, avant, kraut, anche se non mi piace molto usare etichette di questo tipo.
Il disco si potrà ascoltare dal vostro sito?
E’ in free download (con possibilità di donazione libera) qui: http://www.japanesegum.net/ep.html.