Insieme a Giovanni Lindo Ferretti in un incontro nella Berlino degli anni ’80 dà vita al progetto Mitropank e con l’arrivo di Umberto Negri la band cambia nome costituendo i CCCP.
Al microfono di Patrizio Longo incontriamo Massimo Zamboni il chitarrista e compositore dei CCCP per raccontare questo percorso, quello di una band che ha fatto scuola. Il gruppo si identificano come autori della “musica melodica emiliana” e del “punk filo-sovietico”.
Al microfono di Patrizio Longo, incontriamo Massimo Zamboni. Il chitarrista e compositore dei CCCP, qui con noi per raccontare il percorso di una band che ha fatto scuola. Bentrovato Massimo!
Bentrovato!
Ti va di ripercorrere questo cammino – iniziando dagli eventi più recenti, come l’incontro con Nada per raccontare un periodo della storia del rock in Italia?
Sì, mi va di fare questo racconto. È molto lungo, quindi dovrò farlo per sommi capi, anche perché è stato tantissimi anni fa. Mi piace l’idea di farlo a ritroso, partendo dalle ultime cose per tornare indietro. Una delle cose più recenti è stato questo concerto con Nada, la settimana scorsa a Roma, al Circolo degli Artisti. È un concerto che avevamo già riproposto quattro anni fa, ed era uscito anche un album per Fandango. È stata un’occasione molto curiosa, particolare: per la produzione di un documentario su Nada, lei mi ha chiesto di rimettere insieme quel concerto, rifarlo davanti ad un pubblico e filmarlo per inserirlo nel documentario. Il concerto è andato davvero molto bene, anche al di là delle aspettative. Ci ha rimesso qualche tarlo in testa, e quindi forse ci saranno degli aggiornamenti.
A proposito di comunicazione: nei confronti dei media, e in particolare della televisione, hai sempre dimostrato un atteggiamento di avversione. Cito da una tua dichiarazione, in cui affermavi: «I media è come se mi rubassero l’anima.» Hai ancora paura dei media?
Diciamo la verità: quell’affermazione era molto giovanile. È esattamente dell’86: il mondo era diverso e son diverso anch’io. La mia avversione per i media, se possibile, è aumentata, perché quello che, un tempo, era uno sfogo giovanile, ora è un’avversione fondata, perché mi rendo conto di quanto sia il coinvolgimento dei media nel suscitare le guerre, nel suscitare l’odio, nel suscitare l’inimicizia – quando va bene – tra gli uomini. E nel creare quello stato di panico, sempre, che serve per governare il mondo. Questo è un dato di fatto, non l’ho inventato io. Credo che i media siano una catena perversa, da questo punto di vista, e non è neanche pensabile che sia praticabile un utopia in cui il mezzo diventa buono e serva a qualcosa. Ci sono degli slanci televisivi, ogni tanto: basta vedere Benigni una sera, o Saviano, e pensi che il mondo abbia voglia di sentire parlare in maniera educativa, sensibile, accorata. Poi, dopo, ripiombiamo nella solita catastrofe. Però, allo stesso tempo, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, e non bisogna pensare che non esistano giornalisti con una propria personalità, anche molto forte, che perlomeno cerchino di sottrarsi a questo meccanismo. Per cui, quando sei una persona di fronte ed un’altra persona, cambia tutto – naturalmente. Rimane quest’avversione per il sistema dei media, in generale, ma rimane anche l’amicizia, e in alcuni casi anche grossa stima, per le persone che ci provano, a trovare un loro spazio all’interno di questa catena perversa.
Un riferimento a L’inerme e l’imbattibile, che rimanda ad un cofanetto con cd, libro, riflessioni e cortometraggi. Un lavoro che apre spunti di riflessione sul potere della comunicazione, oppure sulla riflessione attraverso la musica?
Non era l’intento principale, quello della comunicazione, però è un albo, un cofanetto che tratta dell’inermità: ha un tema preciso, come si vede anche dal titolo. Mi rendo conto, quando si parla di inermità, di quanto contribuisca la catena dell’informazione a creare inermità. Questo è spaventoso, e tutte le volte che te ne rendi conto… Anche di quanto, durante la guerra nella ex-jugoslavia, la televisione e la radio abbiano contribuito a fomentare una guerra di cui non c’era alcun bisogno, nelle persone. C’era “impotenza”, ma c’è sempre la guerra “impotenza”, in ognuno di noi. Anche nel nostro mondo abbastanza pacifico, è sempre presente, è sempre latente. Basta qualcosa che spacchi questa “superficie” su cui viviamo, per precipitare in un precipizio senza fondo. Però non è detto che questa cosa si debba rompere: le persone normalmente scelgono lo stato di pace, non scelgono lo stato di guerra. C’è sempre qualcuno che crea lo stato di guerra, e la conseguente inermità.
E la prosecuzione della linea comunicativa introdotta dai CCCP?
Sì, penso di sì. C’è quell’idea che con la musica non necessariamente devi cantare del tuo ombelico, o devi cantare di musica. Non abbiamo mai seguito le coordinate musicali in quanto tali; non mi interessa proprio la storia della musica. Mi interessa la storia, e come la musica si distingua nella storia, e mi interessa il percorso dell’individuo: il mio percorso individuale che attraverso la musica diventa collettivo. Senza porsi come esempio, diventa paradigmatico di tutto un modo di esistere. Grazie alla musica puoi passare quelle che sono le tue istruzioni per sopravvivere, bene o male, in questo mondo, che è l’unico che abbiamo e che è l’unico tempo in cui noi vivremo. Per cui occorrerà farne un tesoro, per quanto possa sembrarci negativo a volte.
Ripercorrendo la storia dei CCCP – Fedeli alla linea, Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni e Umberto Negri: indiscutibile l’energia che avete trasmesso nei live, ma la stessa energia ha stabilito anche un comportamento distaccato con il pubblico. Per quale motivo?
Perché, diciamo che prima della venuta di Annarella, benemerita soubrette e di Danilo Fatur, artista del popolo italiano, non c’era pubblico. Noi eravamo testa, raziocinio, forza verbale, forza musicale, mancava un elemento di fisicità… diciamo che mancava lo scambio di sudore con il pubblico. È stata un’acquisizione molto importante, da questo punto di vista, quella di avere due ballerini, due performer sul palco. Non può esistere solo la ragione e la forza artistica, ci vuole un corpo che le sostenga.
E l’incontro con “l’artista del popolo”, Danilo Fatur?
L’abbiamo incontrato una sera in un circolo di Carpi, e lui era vestito come – secondo lui – si sarebbe vestito Papa Karol Wojtila, e fece uno spogliarello, fingendo di essere questo Papa, ed era abbastanza convincente… è stato assoldato immediatamente.
A proposito di racconti: siamo a Berlino, 1981, nella discoteca di Kreuzberg. Mi racconti l’incontro con Ferretti?
L’hai già raccontato tu: è avvenuto per un caso assoluto, uno di quei casi che mettono in contatto le persone e possono durare solo qualche secondo. Lui aveva una valigia in mano e stava per andare a prendere un aereo per la Tunisia, io ero appena uscito dal lavoro e quella notte avevo voglia di ballare. L’unica possibilità era quella di cogliere quel momento lì, di convincersi l’uno dell’altro in pochi secondi… e questo poi è successo. È una cosa assolutamente incredibile, anche perché noi vivevamo nella stessa città e non c’eravamo mai conosciuti. E quindi poi, alle volte, tutta la tua vita si determina per una decisione di un breve attimo.
Cosa rispondi a chi vi indicava come “intellettuali annoiati”?
Credo che, perlomeno, non dovrebbero fare gli indovini come mestiere: non ci hanno azzeccato molto. Annoiati, questo mai; intellettuali forse.
Massimo Zamboni è anche autore di numerose composizioni usate per il cinema. Ti è mai capitato che una colonna sonora sia diventata una canzone?
Quasi sempre. La colonna sonora usata per il prima lungometraggio di Daniele Vicari, Velocità massima, poi è diventata tutta una serie di trasposizioni del mio cd Sorella sconfitta. Poi tante altre, un po’ alla volta, si sedimentano e ammucchiano parole che magari originariamente non avevano, e diventano canzoni.
Ho letto che, da quando Obama e ha vinto le elezioni come presidente degli Stati Uniti, hai iniziato ad ascoltare il suono della lingua inglese con un tono più affettuoso?
Questo è vero. Non è una grande dichiarazione, ma è vero. Io, tra l’altro, sono laureato in lingua inglese, e dopo un viaggio negli Stati Uniti – ormai mille anni fa – ho preso ad avere un’antipatia viscerale sia per la lingua, che per la letteratura, che pure è stata straordinaria. Mi sembrava che non riuscissero più ad uscire dal pantano in cui si erano cacciate, sia la lingua che la letteratura, ma anche la musica, sostanzialmente. E poi c’era la presunzione di essere “contro” quella cultura dominante, e mi sembra che quella stessa presunzione facesse parte della cultura dominante. E poi basta far muovere uno degli attori: è bastato che se ne andasse Bush, e con lui tutto il male che si è portato dietro, per cominciare – o continuare – a pensare che gli americano sono un popolo come noi siamo un popolo, e che sono persone come noi siamo persone. Non sono il demonio, ovviamente. Già la lingua inglese mi sembra un po’ più carezzevole, e sto cominciando a riscoprire i classici che poi, d’altra parte, hanno fatto parte della nostra formazione. Io faccio parte di una generazione che si è formata, con quei classici.
Durante questo percorso, com’è cambiato il rapporto tra te e Giovanni Lindo Ferretti?
No, il contatto non c’è proprio. Ci siamo incontrati per caso, e ci siamo scontrati per caso. Non ci conoscevamo prima e non ci conosciamo dopo. E io non ho mai sentito una canzone di Giovanni, da quando non fa parte dei CSI. Neanche per caso, e non ho mai letto una sua parola, e non voglio neanche leggerla… è lì il bello. E lui credo che abbia fatto lo stesso con me, e bene così. Ci sono delle cose molto profonde che, quando sono bene, sono cose meravigliose. Quando sono male, è meglio lasciarle lì dove sono.
Grazie a Massimo Zamboni, per aver raccontato questo percorso musicale e, soprattutto, umano.
Grazie anche a te!
Alla prossima! Ciao!
Intervista audio a Massimo Zamboni.
Molto molto interessante,
Molto molto interessante, non è la prima volta che passo da queste parti ma è sempre un piacere. Le interviste che ho letto, o ascoltato, hanno sempre aggiunto qualcosa in più a quello che già sapevo dei grandissimi che sono stati intervistati.
Complimenti.
Giorgio