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Abbiamo incontrato ai microfoni di EXTRANET il jazzista Paolo Fresu. L’Artista ha raccontato il percorso musicale che lo ha portato ad essere fra i personaggi più considerati della scena jazz italiana. Paolo nasce in Sardegna e dopo aver dato nutrimento alla propria Arte decide nel periodo dei seminari Senesi (1982) di orientarsi alla musica jazz. Durante l’incontro l’Artista sottolinea il significato di musica che parte dal cuore; ha evidenziato parlando dei seminari la posizione che da studente adesso lo vede professore. Non dimenticando il riferimento ai suoi miti Miles Davis e Chet Baker.

Ciao Paolo, parlaci del tuo nuovo lavoro?

Beh, nonostante le numerose collaborazioni in giro per il mondo, il progetto del mio cuore è pur sempre questo, ossia il quintetto italiano con cui suono dal 1984: non si tratta solo di ottimi musicisti, ma di persone che umanamente hanno molto da dare gli uni agli altri, altrimenti non si rimane insieme per così tanti anni- Questo quintetto è stato la mia prima “palestra di lavoro” anche per la composizione e la scrittura musicale, ed oggi abbiamo deciso di festeggiare i 20 anni di attività con un progetto che vede ciascuno dei componenti scrivere un intero disco. Questo progetto è stato ben accolto dalla Blue Note italiana, nella figura di Patrizio Romano, ed il primo disco – quello scritto interamente dal pianista Roberto Cipelli – è uscito a gennaio 2005 e si intitola “Kosmopolitès”, il secondo – di Attilio Zanchi – a Novemebre 2005 e si chiama “P.a.r.t.e.” (ed è l’acronimo dei nostri moni), il terzo – di Tino Tracanna – in primavera 2006, e poi ci saranno quello di Ettore Fioravanti e finalmente il mio nel 2007. E’ un percorso un po’ a ritroso un po’ nel presente, per raccontare la storia di un gruppo che ha ormai una sua forte personalità ed una cifra stilistia definita. La scommessa è quella di suonare 5 penne diverse per far uscire un suono che è quello del nostro quintetto, abbastanza unico dopo tanti anni di vita assieme.

Sergio Cammariere, Ivan Segreto, Paolo Fresu. Menti attive della scena jazz in Sardegna?

Beh, in Italia fortunatamente c’è una “decentralità” della cultura (rispetto ad esempio alla Francia, dove tutto deve “passare per Parigi”). In Italia la cultura viene prodotta e fruita non solo nelle grandi città come Roma e Milano, ma anche dalle “periferie”, che possono contribuire in modo evidente alla vita culturale ed hanno grande voglia di esprimersi e raccontare. Non è quindi un caso che in regioni apparentemente lontane dal centro, come Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia ci siano molte cose da dire: le cose da dire ci sono dappertutto, il problema è riuscire a farsi ascoltare. La Sardegna è una delle regioni dove si produce più jazz in Italia: ci sono festival internazionali prestigiosi e musicisti… speriamo che questo “stato di buona salute” del jazz nelle regioni periferiche sia la dimostrazione della creatività che in Italia esiste.

Tu hai suonato nella banda del paese, in gruppi di musica leggera, nei gruppetti di paese. Quando sei passato al jazz?

Ho suonato anche ai matrimoni… poi verso la fine degli anni 70 mi sono appassionato ad “altri suoni”, ad un certo tipo di avanguardia, il rock progressivo, soprattutto inglese: tipo Camel, Nuklues, Soft Machine…da lì passare al jazz non è stato difficile. Poi un giorno ho ascoltato alla radio un trombettista che suonava incredibilmente veloce con la tromba e questa cosa mi ha enormemente affascinato… Poi, scoprendo Davis, sono rimasto molto influenzato e ho scoperto che la cosa che mi affascinava del jazz non era sicuramente la “ginnastica” ed il modo di suonare “pirotecnico”, ma l’utilizzo del “silenzio”, ed era quella “magia” che mia aveva colpito. Dall’inizio degli anni ’80 ho cominciato ad ascoltare molti trombettisti che mi hanno lascito un segno profondo, tra cui principalmente Davis e Chet Baker.

Cosa ricordi dei “Seminari Senesi”?

Ho un ottimo ricordo. Io sono andato a Siena per la prima volta nell’80, poi nell’82. Dall’85 sono diventato insegnante in quegli stessi corsi di cui non molti anni prima ero allievo. Devo molto a Siena, al punto che a Nuoro ho creato io stesso un seminario che oggi è alla 18ima edizione. Io credo molto alla didattica, non tanto per l’apprendimento – per il quale esistono bellissime pubblicazioni che non esistevano all’inizio degli anni ’80 – ma piuttosto perché i musicisti, e soprattutto quelli che vengono dalle “periferie” di cui parlavamo prima – hanno modo do confrontarsi con altri 100, 200 ragazzi che vivono le medesime condizioni e che improvvisamente, per 10-15 giorni si trovano a parlare quella medesima lingua che era apparentemente lontana. Io credo che i seminari di Siena siano una delle realtà più prestigiose d’Europa e non solo e spero che realtà come queste in Italia continuino ad esistere e proliferare.

Discoteca personale. Cosa troviamo?

Tantissimi dischi. In parte anche perché ne ricevo molti, essendo direttore di un festival importante come quello di Berchile. Ci sono i classici: Miles, Coltrane, Bill Evans, Billie Holiday, Charlie Parker… Poi le novità, anche dei colleghi e non solo trombettisti.. molta musica classica barocca, molta musica “del mondo”: africa, oriente… con cui il jazz si sposa molto bene. Credo che sia importante condividere tutti questi linguaggi.

Vivi tra Bologna, Parigi e la Sardegna. A parte le origini, a quale città sei particolarmente legato?

In Sardegna ho molti affetti, non solo familiari, ma anche tra i collaboratori. E ci torno sovente anche per motivi creativi. Parigi è il luogo degli incontri. Bologna è un po’ il “cuore” d’Italia, non solo geograficamente, è un crocevia dinamico che unisce gli aspetti sociali ed umani di una realtà isolata come può essere quella di un’isola e di una città cosmopolita e caotica come Parigi. Ma la mia vera casa alla fine è il “viaggio”, che in fondo è la musa ispiratrice di molti miei lavori.


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