Prima di affacciarsi sulla scena degli anni ’70 ha collaborato con numerosi artisti della nazionali ed internazionali fra cui: Pino Daniele, Edoardo Bennato, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Gino Paoli, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini.
Indiscusso percussionista tanto da essere definito “King of percussions” e fra i primi artisti italiani degli anni ’80 ad essere esporto all’estero.
Effige della creatività di questo talento la ritroviamo nelle prime pubblicazioni da solista “Rosso napoletano” (1975) e “Processione sul mare” (1976). Prima di abbandonare la sperimentazione ed intraprendere il percorso che lo porterà al successo. Gli anni ’80 rappresentano, infatti, l’acme di Tony Esposito.
Un viaggio fra ritmiche provenienti da diverse culture ed innovazione. Abile costruttore di strumenti unici per melodia che hanno dato successo a canzoni come “Kalimba de Luna” diventata fotografia della scena partenopea anni ’80.
Incontriamo il musicista al microfono di EXTRANET per ripercorrere questi momenti di grande successo fra sperimentazioni, ritmo e voglia di conoscere nuove culture.
Ed eccoci qui al microfono di Extranet con Tony Esposito, benvenuto!
Ciao, ciao a tutti!
Una carriera che ti ha visto presente come grande sperimentatore, nella prima sezione, e nella seconda invece ti ha visto forse abbandonare il lato della sperimentazione, ma incontrare il successo. Partiamo dagli albori di questi attimi: hai iniziato la tua carriera artistica collaborando con grandi personaggi, artisti della scena italiana – Lucio Dalla, tanti nomi importanti. Come ti sei avvicinato al mondo delle percussioni, della ritmica?
Se dovessi dirtelo dovrei tornare indietro nel tempo, ma è troppo lontano. Credo che sia qualcosa di istintivo all’inizio: una scelta magica che non so spiegarmi, voluta da un desiderio inconscio forse. E poi la strada è stata lunga, tortuosa ma affascinante, perché è stata in qualche modo una strada diversa dalle altre strade. Quando ho iniziato, alla metà degli anni Settanta, ho iniziato con un gruppo cult, facevo con il pedigeo, poi avevo un gruppo di jazz mediterraneo che era molto particolare. Poi il trasferimento a Roma e l’incontro con i vari emergenti cantautori: Dalla, De Gregori, Venditti; le collaborazioni con Paoli, Guccini, i fratelli Bennato, e poi dopo l’incontro con l’amico Pino Daniele, i concerti con “Scirocco”(io, Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Jaems). In seguito, dopo tutta una strada da solista, la parentesi ben lunga (di cinque anni quasi) con Pino, che in realtà ha coinvolto la quasi totalità dell’impegno perché lavoravamo in giro per il mondo, tanto, il gruppo aveva successo, Pino aveva un grande successo. Poi il successo internazionale, mondiale con “Calimba de luna”, poi “Pagaia”, “Papa Cico” e il giro del mondo con pezzi che hanno segnato per me un’epoca musicale importante, ovvero l’incontro con quelli che erano i miei grandi miti. Quando feci “Calimba de luna” e vinsi il Festivalbar dopo la prima tournée che feci in America incontrai i grossi, incontrai Steve Wonder, Trevor Horn, Quincy Jones, per me era un pezzo del successo, il passepartout per incontrare grandi miti. Qui mi sentivo proiettato nell’Olimpo della musica. Con un lato negativo: che trascorsero 5, 6 anni in giro a presentare “Calimba de luna” senza poter fare nient’altro, per la maggior parte in playback, per cui manco suonando. Poi alla fine di tutto ciò mi è rivenuta la voglia, chiaramente, di ri-iniziare da capo. Dopo tanta sete di televisione che per me era necessaria, perché immagina un ragazzo che suona le percussioni in un impero di cantautori, gli si offre l’occasione di fare Sanremo, di uscire sulle copertine dei giornali, di vendere milioni di copie: io chiaramente ho seguito con ansia quella strada. Alla fine ho capito che manco quello era quello che cercavo, allora sono ritornato sui miei passi e un po’, avendo poi più potere di fare delle cose, rifiutavo dei programmi delle televisioni; riprendendo di nuovo la strada della sperimentazione, della musica, facendo delle operazioni fantastiche, come l’incontro con Gilberto Gill, il Carnevale di Rio de Janeiro, il Festival della Gioventù a Cuba: sono state grandi soddisfazioni in giro per il mondo. In Italia ho vissuto quello che era un po’ la crisi, per cui io mi sono allontanato da quello che era un momento in cui c’era poco fermento e forse i giovani stavano incominciando a tirar fuori. Ritorno con la voglia di fare delle cose in Italia, quando l’Italia si fa sentire con le pizziche nel sud, le tarantelle, dove c’è di nuovo una linfa vitale: la percussione è elemento primario di tutti questi ritmi e di queste danze. Ritorno con una serie di progetti, che ti elenco: Pino Daniele, la tournée, il disco, molto importante per me l’incontro con questo grande artista e un disco di world music che ho fatto, con Franco Battiato ospite…
Ti interrompo un attimo. Franco Battiato ti ha definito “il re delle percussioni”.
Franco è un amico. Poco tempo fa, no mesi fa, mi ha detto una cosa: “Tony, tu non hai persone che hanno seguito la tua strada, non hai eredi. Questa è una cosa buona per te che rimani a essere Tony Esposito, sei ancora l’uomo del tamburo, colui che ha inventato una strada; e una cosa brutta da un punto di vista della cultura”, perché in qualche modo è come se nessuno avesse avuto più voglia di far musica, tutti vogliono far successo con altre cose (con i computer, rappeggiando). Questa da un lato è un complimento perché in qualche modo la mia strada per me è sempre una strada aperta, però io che credevo di aver fatto scuola, ma gli scolari dove stanno? Che magari mi hanno anche superato, però dove stanno mi chiedo?
E del blues metropolitano come lo descrivi con le parole? Questo genere che avete inventato, che poi ha avuto la sua massima espressione, come dicevi poc’anzi, nell’81, con l’album di Pino Daniele “Vai mo’”.
Io avevo portato l’Africa con Napoli, Pino voleva mischiare il blues con Napoli: a dimostrare che il sud è un contenitore dove le culture si possono mischiare. In realtà la musica, essendo un linguaggio multietnico e globale, si poteva benissimo mettere Napoli con il blues e infatti questo è successo. Pino rimane un autore fantastico, con una denominazione che non ha perso: è un autore del Mediterraneo, però con quella vena blues; come io con quella vena afro, come i musicisti del Salento con una vena un po’ reggae, un po’ dub, no?, però senza perdere il contatto, di essere salentino o comunque gente del sud.
Che cosa ha significato per te negli anni Ottanta – in quel periodo in cui nel nostro Paese non esisteva internet e quindi esisteva sicuramente una diffusione molto più ridotta, molto più paesistica e non globalizzata come adesso – essere il personaggio più esportato all’estero? Tra l’altro uno dei pochi italiani che veniva esportato all’estero in quel periodo che noi importavamo tutto il new wave, come direbbe il tuo amico Franco Battiato, il rock italiano?
Quel periodo era diverso, più difficile di oggi. Oggi le frontiere si sono aperte, oggi è più facile muoversi; c’è un momento di crisi però ci sono dei grandi vantaggi. Oggi, tramite una forte comunicazione, tramite internet, tramite altri sistemi multimediali, ci si fa conoscere in un lampo in tutto il mondo, si sono mischiate le cose. Prima l’Italia era un po’ isolata, questo era un po’ il dolore degli Italiani, e oggi è diversa. Allora per me era una vittoria fantastica quella di aver oltrepassato le frontiere. Certo che di napoletano… c’era “Calimba de luna” che era un nome africano, di italiano africano, poi c’era un po’ di inglese, un po’ di napoletano, c’era comunque un miscuglio. Avevo capito che, imbastardendo – per usare un termine che sembra dispregiativo però in qualche modo forse no -, contaminando si riesce a superare. Perché poi forse la musica è pure contaminazione. Quello che sta succedendo, e deve succedere con le pizziche, con dei ritmi di queste terre, che debbono essere contaminate per allargarsi.
A proposito di contaminazioni, ti possiamo considerare un antesignano delle contaminazioni. Negli anni Ottanta non si parlava di questo mischiare le etnie, di attingere dalle diverse culture e dalle menti per poi tirare fuori un nuovo genere. Ti va comunque riconosciuto il merito che sei stato un antesignano, un precursore di quel genere?
Per me era più semplice perché per un cantautore, per i miei amici, non era facile. Per me era facile perché in qualche modo io potevo, proponendomi come percussionista potevo mischiare bene, potevo collaborare. Mi si deve riconoscere il merito che io ho messo insieme tutti i cantautori italiani: i musicisti che hanno suonato con me hanno suonato con Pino, e quelli con Pino poi hanno suonato con Gino Paoli, e li ho fatti suonare anche con De Gregari… Ho sempre unito le persone. Alla fine ho cercato sempre di mischiare le cose, diciamo che sono stato un bravo impollinatore. Molti dei miei musicisti stanno in giro per il mondo. Io adesso se dovessi dirti del panorama italiano, ti direi che c’è un momento di grande dispersione, non c’è una new age, un’onda, un nuovo rinascimento musicale, ma tutti stanno costruendo qualcosa, ci sono focolai di cose interessanti. Per esempio a me piacciono molto i Sud Sound System perché loro sono riusciti a fare del dub e a renderlo sempre più originale, sono arrivati ad avere un impatto vocale notevole, ad avere una bella originalità, così come nella mia città lo sono stati tanti artisti: gli Almamegretta sono stati molto bravi, i 99 Posse.
Perché parli di passato quando ti riferisci a loro?
Perché non li vedo più contemporanei: gli Almamegretta non ci sono più, i 99 si sono sciolti, per cui per me sono gruppi che non sono riusciti a rimanere. Però c’è una cosa che forse bisognerebbe fare: cercare una specie di work in progress unito, cioè un’officina dove la gente è più unita. Gli Italiani sono fantastici ma sono litigiosi tra di loro. Questo te lo dico dopo un’esperienza di vent’anni: non si riesce a tenere assieme la gente, non capisco perché! Il desiderio di fare un grande concerto, con tutti sul palco, a dimostrare che c’è un’identità italiana, non si riesce, perché quello non vuole sapere di quello e quello non vuole suonare con quello: è una cosa stupida, ancora un aspetto provinciale.
Sei anche un creatore di strumenti: hai creato il tamborder. Come si crea uno strumento. Da dove viene l’idea di creare uno strumento che crei il suono?
Ogni gesto nasconde sempre una culture di base: io vengo dall’accademia d’arte, io vengo dal disegno. Uno che viene dal disegno, dalla pittura, viene chiaramente da un impatto con il colore; allora poi mi pongo verso la musica prima con un aspetto da colorista, cioè la musica per me è a colori, per me la combinazioni di colori è fondamentale. Quando io vado in Africa, vedo che ci sono delle cose di colori… Io dicevo: io suono i tamburi, i tamburi di tutti, ma il mio tamburo qual’è?
E allora ho pensato di unire modernamente un po’ l’elettronica con quello che è invece il suono dell’Africa e nasce tamborder, che vuol dire tamburo di frontiera. Nasce uno strumento negli anni perfezionato ma unico. Ancor’oggi mi chiedono: “ma questo strumento che tu …”, le note di Calimba le ho fatte con quello strumento, riesco a fare una composizione completa con quello strumento. Sono stato in America a fare musicoterapica, sono stato nelle università a mostrare questo strumento. Per cui la cosa è nata così, per caso, non ti so dire com’è andato il percorso. E’ nato magicamente per un errore. Stavo cercando qualcosa, io da solo smanettavo e unendo delle combinazioni pazzesche è nato questo unico suono.
Provieni da una terra meravigliosa che ha dato molti talenti. Qualche tempo fa incontrammo Eugenio Bennato, ma l’elenco sarebbe davvero infinito. E’ l’essenza di quella terra che genera talenti così preziosi come il tuo?
Sicuramente se io non fossi nato al sud…Il mio gesto sul ritmo parte dalla nascita in un posto preciso che è Napoli. Se fossi nato al sud mi sei orientato verso altre cose, sarei un’altra persona. Per me è stata così importante la vicinanza di amici, “Nuova compagnia di canto popolare”, musica nuova insieme, i gruppi, l’incontro con Pino Daniele, con Granni Agnello, con i Bennato: tutta la linfa vitale che a quel tempo era a Napoli.
Ci auguriamo allora di trovarti in una delle prossime edizioni della “Notte della Taranta”, visti questi propositi anche questa bella presenza nel Sud?
Chiudo dicendo che sono in contatto da anni con l’assessore, con il sindaco (persone molto simpatiche) e ho un progetto molto preciso, se riesco ad attuarlo…, se riesco a farlo allora verrò alla “Notte della Taranta”.
Restiamo in ascolto allora, grazie a Tony Esposito.
A presto.
Ascolta intervista a Tony Esposito.