In Italia è risaputo ci siamo i doppiatori più bravi della scena internazionale, attori che scelgono come professione quella del doppiaggio.
Abbiamo avuto modo, nei precedenti incontri, di raccontare alcuni aspetti di questo mestiere. Inoltre appassionati ed incuriositi, da una delle serie di cartoni tv più noti, i Simpson abbiamo incontrato alcuni dei personaggi più rappresentattivi. In questo spazio al microfono di Patrizio LONGO con Ilaria Stagni icona del doppiaggio femminile italiano e voce, nella serie, di Bart Simpson.
Inoltre, l’Attrice presta la voce per il cinema, la radio e la televisione come per Gabrielle Solis in Desperate Housewives e Shirley Temple, nel ri-doppiaggio della serie tv, sostituendo la voce degli anni ’30 di Miranda Bonansea. Ripercorriamo con Ilaria Stagni questa avventura davanti al microfono.
Al microfono di Patrizio Longo incontriamo Ilaria Stagni. Ciao Ilaria, benvenuta!
Ciao! Ciao a tutti!
Ilaria Stagni proviene da una famiglia di doppiatori, vive in una famiglia di doppiatori, e la prima domanda – forse un po’ ovvia, ma di sicuro interesse – è: che aria si respira in casa tua, avendo per genitori questi grandi nomi del doppiaggio?
Più che doppiatori i miei sono stati soprattutto attori di teatro, per cui sono cresciuta con la famosa polvere del palcoscenico. Mio padre ha lavorato con Gassman e con Edoardo, e anche mia mamma faceva tanto teatro, quindi è inevitabile… una maledizione se vuoi (ride). Tu lo respiri da piccola, e poi non puoi fare altro che recitare. È il fuoco sacro che si passa di generazione in generazione. Io posso solo dirti che, quando ero piccola, mia madre invece di raccontarmi le favole della buona notte mi raccontava “Sogno di una notte dimezza estate” facendomi tutte le voci dei personaggi. Se cresci così, poi non puoi fare altro che l’attrice.
Credo che questa sia una cosa meravigliosa: un bambino che viene addormentato con la voce che ha prestato il doppiaggio ad un evento, invece che da una registrazione dell’evento stesso. Se non avessi fatto la doppiatrice, cosa avresti voluto fare nella vita?
Quello che certo di fare ormai da qualche anno: mi piace molto la produzione, mi piace scrivere, ed ho aperto una società di produzione cinematografica indipendente insieme a Pietro Sutti, la “Strawberry Film”. Ogni tanto ce ne usciamo con qualche cortometraggio, con qualche film o con qualche lungometraggio. Però in Italia è difficile essere indipendenti, mi sono scelta una carriera spesso ardua: non ci sono mai soldi per fare qualcosa, non c’è il tempo, non c’è la disponibilità… poi la distribuzione italiana è terribile, ha delle lacune incredibili. Ci perdiamo tante buone occasioni e tante buone persone: tante menti, tante teste, perché in Italia ci sono tanti attori, scrittori, sceneggiatori e registi validi. Purtroppo non escono, non emergono, ma questo ormai è un male comune a quasi tutti i campi.
Durante il tuo percorso professionale hai dato voce a numerosi personaggi. Volevo soffermarmi al ri-doppiaggio di Shirley Temple, in cui andavi a sostituire la voce originale degli anni ’30, quella di Miranda Bonanzea: è stato un compito gravoso, con questo fardello così importante?
Era piccola, non mi rendevo conto… me ne sono resa conto dopo. Devo dire che io Miranda la conosco, perché lavora ancora ed è una mia bravissima collega doppiatrice. Tra l’altro è ancora in gambissima. Lei stessa mi ha detto: «Si, ho rivisto i tuoi film, e mi sei piaciuta!» Detto da lei… sono contenta. E poi, devo dire, quella è stata un po’ la mia palestra. Ho fatto tutta quella serie di film con la grande Fede Arnaud, che è stata la mia maestra ed è stata una delle grandi: ha fatto del doppiaggio un arte, e mi ha insegnato tutto. Non è stata una maestra solo per me, ma anche per molti altri. Ora non c’è più, ma mi è rimasto quello che mi ha insegnato, ed è stato importante per me.
Solo in questi ultimi anni il mestiere del doppiatore sta ricevendo il credito che merita, ed a molte voci si comincia ad associare un volto, oltre a molti riconoscimenti nel panorama italiano. Ma quanto una voce veste un personaggio, e quanto un personaggio viene vestito da quella voce?
È importantissimo, soprattutto se pensi a casi plateali come quello del grande Rinaldi con Marlon Brando, che erano due sonorità, due vocalità completamente diverse. Ma forse la fortuna di Marlon Brando qui in Italia è stata anche ad opera di Peppino perché, con la sua capacità di passare da Peter Sellers a Marlon Brando, perché era un genio in questo lavoro, l’ha reso grande. Credo che ci sia molto di ognuno di noi nei nostri personaggi: non è solo voce, è molto di più. Io dico sempre che un attore è due volte attore: non solo deve rifare quello che hanno fatto loro, arrivando alla loro altezza, ma ci mette anche del suo… il che è inevitabile.
Hai prestato la voce a numerosi personaggi, sia reali che dei cartoni animati. Come il doppiaggio del topo Jerry, nel film di Tom & Jerry del 1995, un classico di tutti i tempi, e quello di Pocahontas. Riscontri delle differenze, dal punto di vista professionale, tra il doppiare un attore ed il doppiare un’animazione?
Forse il cartone animato ti consente di giocare di più, e di dare di più. Quando hai davanti Jennifer Lopez o Winona Rider, invece, devi comunque riprodurre quello che hanno fatto, perché è stata una loro scelta d’interpretazione, o una scelta del regista, o delle tante persone che hanno scritto il dialogo. Sento questa responsabilità di restare fedele a quello che è stato fatto. Anche perché, mentre prima non c’era il paragone, ora grazie ai dvd con l’audio sia in italiano che in lingua originale è importante che nel passaggio da una lingua all’altra non ci siano differenze. Il cartone ti permette di giocare di più, anche se le sonorità, e la ricerca dei toni e delle espressioni, rimangono sempre quelle, e tu a quelle sei legato.
In apertura del nostro incontro parlavamo del tuo ingresso in sala di doppiaggio, e di questa tua appartenenza ad una famiglia di attori, ma anche tuo figlio Jacopo è stato introdotto al doppiaggio. Potremmo definirla una tradizione di famiglia?
Io non volevo che Jacopo cominciasse a fare questo lavoro, perché secondo me i bambini devono fare i bambini, ma alla fine l’ha spuntata lui. Però in realtà questo è un lavoro che se si comincia a fare da piccoli, e si hanno il talento e le qualità per farlo, poi te lo ritrovi da grande e sei avvantaggiato. Ti viene quasi naturale adottare accorgimenti tecnici, come il synch, di cui da piccolo non ti accorgi nemmeno ma che da grandi possono causare qualche problema. Jacopo mi dà molte soddisfazioni, perché è molto bravo. Vedremo se vorrà continuare o se vorrà fare altro, questa è una sua decisione.
Passiamo ad uno dei personaggi che ti rappresenta maggiormente, al quale sei particolarmente legata e per il quale il grande pubblico ti conosce: Bart Simpson. Sei la sua voce ufficiale italiana, che mi dicono essere molto simile alla voce americana. Quanto ti rispecchi nel personaggio di Bart. Quanto è diventato tuo, questo ragazzino euforico?
Ormai Bart è parte del mio Dna, in realtà sono io gialla e con i capelli a punta. È molto simile a me, è tutto il lato bambino e maschiaccio che io sono. Per cui è molto facile, nonostante poi la ricerca vocale che è completamente diversa, e le voci si matchano molto bene. Anche in America è una donna a doppiarlo, Nancy Cartright, ed è una voce molto molto simile alla mia. A volte non si coglie la differenza. Mi ricordo la prima volta che feci il provino… noi fummo tutti scelti da Matt Groening in persona… e vidi questo cartone animato che, all’epoca, non era definito com’è adesso: molto più grezzo, scolastico, con un taglio un po’ più graffiante e strano. La prima cosa che ho detto è stata: «Mamma che brutti!» (ride). Invece poi me ne sono assolutamente innamorata. I Simpson sono così: o li ami o li odi, non ci sono vie di mezzo. Però hanno un seguito talmente grande che penso vengano più amati, che odiati.
Ci hai raccontato l’immagine di una piccola Ilaria Stagni che si addormenta con papà e mamma che raccontano quello che hanno interpretato con le loro voci dei personaggi rappresentati. Ma per addormentare Jacopo utilizzi lo stesso sistema? Quale voce preferisce: Bart, Gabrielle di Desperate Housewives?
Quando ero incinta di Jacopo facevo proprio quel famoso film di Tom e Jerry. Da noi funziona così: nel turno della mattina fai un personaggio, poi in quello del pomeriggio ne fai un altro, e la sera un altro ancora. Per cui io pensavo: ma questo povero bimbo, che sente la madre fare la mattina un topo, il pomeriggio una sex-symbol e la sera un maschietto… che cosa penserà di me??? (ride)
Con Jacopo ci siamo divertiti… mi ricordo che lui da piccolo adorava Winnie the Pooh, quindi io facevo telefonare a casa i miei colleghi e lui parlava con Winnie, oppure con Tigro. Poi la mattina dopo andava a scuola e diceva: «Io ieri sera ho parlato con Winne the Pooh», e chiaramente nessuno gli credeva. (ride)
Era un universo meraviglioso, quello in cui vivevi?
Sì, noi abbiamo questo privilegio, rispetto ad altri. Poi, comunque, uno cresce normalmente. Ma io volevo raccontarti una cosa che forse non sai: sto preparando un documentario sul doppiaggio.
Era la mia prossima domanda: so che stai lavorando ad un importante contributo al mondo dei doppiatori: un documentario, unico nel suo genere, sulla storia del doppiaggio. Ci dai qualche accenno?
Io la chiamo “l’opera omnia”, perché non finisce più. Ci lavoro da due anni, va dall’inizio del muto fino all’ultima generazione di doppiatori italiani. Ho voluto fare un tributo al mio mondo, una sorta di “tesi di laurea”: arrivata a questo punto della mia carriera, che mi ha regalato tante belle soddisfazioni, ho pensato fosse giusto ripercorrere insieme a tutti i miei colleghi la storia del doppiaggio italiano. Perché, in realtà, il doppiaggio in Italia è diventato veramente un arte. Non per niente siamo riconosciuti come i migliori del mondo. Io l’ho capito il perché, e lo capirà anche chi vedrà il documentario.
Ci racconti il perché?
Perché siamo dei gran professionisti, che hanno amato questo lavoro. Se non amassi questo lavoro, non potresti restare chiuso in sala, al buio, tutto il giorno per tanti anni della tua vita. E, fondamentalmente, tutti i doppiatori sono anche degli ottimi attori, che hanno uno strumento musicale: le loro corde vocali. Ne fanno tutto quello che vogliono, come un grande violoncellista o un grande pianista con i loro strumenti. La conoscenza di questo strumento musicale permette loro di fare le cose più disparate: dai cartoni animati, ai film più drammatici, ai personaggi più allegri, spensierati. Ed è una tradizione, una scuola – soprattutto quella romana, direi – che non ha uguali al mondo, e questo ci è riconosciuto. Mi dispiace che nel doppiaggio, in questo periodo storico che stiamo vivendo e nonostante adesso ci sia l’attenzione pubblica al nostro lavoro, tutto quello che viene richiesto in sala sia una grande velocità, ovviamente a scapito della qualità. Mentre invece prima non era così: quando è iniziato il doppiaggio, le major americane volevano che tutto avvenisse con calma e con i tempi giusti. Invece ora è una gran corsa, per cui anche le generazioni che arrivano ne risentono. Mentre noi abbiamo avuto dei maestri che hanno investito tempo in noi per spiegarci le cose, ora non è più possibile “perdere” tempo in questo modo. Per cui le nuove generazione devono “nascere imparate”, o non ce la fanno, ed è una brutta cosa, perché secondo me stiamo perdendo quella grande professionalità, quel grande artigianato che fa del doppiaggio italiano un arte. Infatti “L’arte del doppiaggio” è il titolo del mio documentario, e spero che presto uscirà.
Sono pienamente d’accordo con te. Prima di salutarci, che ne pensi di chiamare un attimo Bart, per vedere cos’ha da dire?
(con la voce di Bart Simpson) Che cosa vuoi?
Ciao Bart!
(con la voce di Bart Simpson) Ciucciati il calzino, che vuoi da me?
Come ti trovi ad essere interpretato da una donna, Bart?
(con la voce di Bart Simpson) Io cerco sempre di uscire, ma quella è più forte di me… è un problema!
Grazie Ilaria! Alla prossima, ciao!
Grazie a te! Ciao a tutti, un bacione!
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