Si può ancora parlare di generi musicali definiti come l’acid jazz?

Acid jazz è una definizione “di comodo”, una specie di genere contenitore di molte realtà diverse, legata più che altro all’attività della nota etichetta inglese. All’interno di questa definizione trovano spazio gruppi radicalmente diversi tra loro, dai Brand New Heavies ai Mother Earth, dal JTQ ai Corduroy. Oggi parlare di acid jazz fa pensare alla musica di metà anni novanta, qualcosa di superato, anche se in realtà lo spirito di ricerca e riscoperta che muoveva quegli anni è più che mai vivo.

La stampa specializzata descrive il nuovo lavoro “Italian Palyboys” un disco con un suono più ricco, cosa avete modificato rispetto al primo lavoro Beat.it?

Italian Playboys è un disco più vario e più consapevole; ognuno dei 14 pezzi prende le mosse da atmosfere particolari (jazz, rock, funky, soul, lunge, progressive, new jazz etc), trasformandole e rendendole poi omogenee al nostro suono. Rispetto a Beat.it quindi il nuovo lavoro è più stratificato, più ricercato e, per certi versi, innovativo…in comune resta il nostro approccio alla musica, molto viscerale e istintuale.

Favorevoli o contrari al P2P (sistema di scambio musica in internet)?

Assolutamente favorevoli!

Il vostro segno distintivo è la presenza dell’hammond nei vostri lavori cosa vi ha colpito del periodo beat 70?

Le nostre influenze sono davvero sconfinate! Ognuno di noi quattro ha i suoi generi di riferimento, ma, in generale, diciamo che tutta la musica dal ’62 ad oggi rientra nel nostro background! Degli anni ’60 e ’70 amiamo praticamente tutto, dal look al design, dai suoni dei dischi agli occhiali da sole! Il suono Hammond è quello che contraddistingue la band e riporta la mente verso quel periodo musicale; ciò non toglie che la nostra musica abbia sempre un occhio verso il presente, sia comunque attuale anche se caratterizzata da sonorità vintage.

Diverse cover nel vostro nuovo disco. E’ sempre molto difficile riproporre una canzone in particolare se è stato un successo. Come è stata effettuata la scelta delle canzoni che avete proposto in cover?

Move move move è un classico per chi segue il nostro genere ed è sempre molto difficile reinterpretare un “classico”…ma i nostri manager della Hammondbeat, dopo averci sentito suonare dal vivo nei due tour U.S.A. dello scorso anno, hanno insistito per averla sull’album e noi li abbiamo accontentati…e il risultato ci sembra assolutamente trascinante! Lady shave è un brano che abbiamo tenuto nel cassetto per anni dopo averlo usato come brano di apertura nei live del 1999 in Spagna…ci ha permesso di avviare la collaborazione con Ninfa, un’amica che ha arricchito moltissimo il suono di questo brano. Rubber Monkey è una piacevole riscoperta, un pezzo relativamente sconosciuto composto da nomi del calibro di Jon Lord, Ron Wood e Twink in un loro brevissimo progetto chiamato Santa Barbara Machine Head. Ci sembrava bello interpretare questa bella canzone passata nel dimenticatoio. Glass Onion dei Beatles prende la sua forza da una rivisitazione totale del brano, è stato divertente prendere in mano una canzone dei Beatles del White album e giocare a girarlo sottosopra!? L’ultima cover del disco è un brano di Jack McDuff, un mio idolo (Paolo), rivisitata in chiave un po’ “sixties”, up-tempo. Questo pezzo verrà presto pubblicato (in una versione alternativa con vibrafono) su una compilation tributo al grande organista americano da un’etichetta newyorkese.

Il vostro background musicale dove dover pone i primi riferimenti?

Come detto prima è difficile trovare dei confini a quello che ascoltiamo e, più in generale, alla musica da traiamo ispirazione. Diciamo che dal rock’n’roll in poi tutto può essere riutilizzato da noi, tenendo ben presente, naturalmente, che il sound del LQ è sempre e comunque riconoscibile. Diciamo che siamo una specie di frullatore, tutto può entrare ma quello che esce porta sempre il nostro marchio di fabbrica!

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