Riflessivo e amaro ma allo stesso tempo sarcastico quanto scettico sul non catastrofismo della società occidentale che spesso si flagella con rituali scaramantici per allontanarsi dalla frenesia del quotidiano.
Questa ci sembra la sintesi che esprime il nuovo lavoro di Paolo Rigotto, musicista e polistrumentista che ci ha raccontato di Uomo Bianco (Contro Records – 2012) il suo ultimo lavoro.
Bentrovato Paolo? Uomo Bianco una riflessione sarcastica quanto amara sulla quotidianità occidentale?
In effetti sì. Ma per caso. Scrivendo le prime canzoni del disco è successo che fossero legate tra loro da un tema che in realtà non ho cercato, è venuto da sé. A distanza di alcuni mesi dalla sua uscita personalmente allargherei molti degli argomenti del disco all’intero genere umano. Non è mai giusto il razzismo, molto più corretta una sana misantropia.
L’ironia da sempre ha rappresentato una riflessione attenta di una situazione ma anche un modo per sdrammatizzare?
L’ironia ti permette di dire le cose in faccia al diretto interessato, oltretutto facendogliele capire. Secondo me è un modo per spiegare il proprio pensiero anche a chi non ha molta voglia di ascoltare, o, più semplicemente, a chi si prende troppo sul serio per capire davvero le cose.
Uomo Bianco un lavoro che conservavi o scritto per l’occasione, per decantare e firmare nel tuo stile il nostro tempo?
Non conservo mai a lungo i lavori, credo che al giorno d’oggi la data di scadenza della musica sia terribilmente limitata. Inoltre penso che un disco, o comunque il lavoro di un creativo, sia un documento importante per fotografare un preciso periodo dell’artista e del mondo che lo circonda. Quindi niente canzoni nel cassetto, ci credo poco.
Quali gli argomenti che prendi in esame e quanto c’è di autobiografico?
Innanzitutto è interamente autobiografico, nel senso che non so parlare di cose che non ho vissuto in prima persona. Il disco parte con la disillusione della generazione della Milano da bere e di Drive In, del Commodore 64 e, arrivata la maturità, del nido Ikea. Non ce n’è più, come si direbbe oggi. I giochi sono finiti, i soldi pure, era tutto costruito molto bene, finché è stato in piedi. Si parla di pace, di quanto sia un valore evidentemente così poco umano, si parla della paura di invecchiare, del lavoro, dell’ossessione per il progresso, si parla persino di amore, a modo mio.
Definisci le canzoni come un: «piccolo esorcismo» una «requiem». Come riesci ad eludere il catastrofismo sociale, quale senso di non poter riuscire a salvarsi tipico del nostro tempo?
L’uomo si salverà quando capirà che tutto questo assurdo giocattolo che è la “civiltà” non regge. Non ci sarà nessun baratro per chi mangerà il cibo che produrrà, per chi abiterà una casa costruita con le proprie mani, per chi non avrà altre esigenze che nutrirsi, curarsi e riprodursi. Il resto è incasinamento sociale, meno si è coinvolti e meglio è. Purtroppo non è ancora tempo. Ci stiamo ancora preoccupando di come trovare il denaro necessario, invece di preoccuparci di come farne a meno.
Seguirà un libro?
Spero che prima i poi succeda. In realtà scrivo, sì, ma non ho la costanza nè il metodo di uno scrittore. Per cui i miei appunti rimangono nel pc mesi, anni, prima di vedere aggiungersi un capitolo, o una pagina. Nello scrivere sono improponibilmente lento.
Quali sono i tuoi ascolti del momento?
Da un po’ di tempo sono ipnotizzato da tutto ciò che è Radiohead. Credo che Ok Computer sia stato un disco di importanza epocale per gli anni ’90 quanto lo fu The Dark Side of the Moon per i ’70. Con la differenza che a me Thom Yorke sta pure simpatico.
A quali altre forme di arte sei interessato?
Il cinema è stato influente nella mia formazione quanto la musica. Secondo me il più grande filosofo contemporaneo dopo Zygmunt Bauman è Tyler Durden. Un abbraccio e a presto. A te e grazie!